Come sono tristi i funerali di John May nel deserto dei suoi “clienti” dimenticati

Eddie Marsan in una scena di “Still Life”, di Uberto Pasolini

Eddie Marsan in una scena di “Still Life”, di Uberto Pasolini

(di Paolo Calcagno) Tutti i colori del grigio. Uberto Pasolini (nipote del grande Luchino Visconti, ma nessun legame con l’immenso Pier Paolo) ha una camera con vista sulla vita reale delle classi sociali disagiate, in caduta libera finanziaria e/o morale dagli arroccati privilegi del tempo che fu. Già produttore di successo di film quali “Full Monty” e “Palookaville”, Pasolini è alla sua seconda regia cinematografica dopo l’esordio con “Machan – La vera storia di una falsa squadra”. Con “Still Life” (Natura morta) il cineasta italiano continua a ispirarsi a persone e fatti reali.
Siamo nel South London, ai giorni nostri, dove John May (uno straordinario Eddie Marsan) svolge il suo lavoro di funzionario comunale, incaricato di rintracciare i parenti più prossimi delle persone morte in solitudine. Irriducibilmente meticoloso e ossessionato dall’organizzazione, John May va ben oltre il suo dovere nel portare a termine i compiti che gli vengono assegnati. Solo dopo aver verificato tutte le piste e gli indizi ed essersi intrappolato in una serie di vicoli ciechi, si arrende e accetta di chiudere un caso e di organizzare il funerale dei suoi “clienti” dimenticati, per i quali è lui a scegliere la musica più adatta e a scrivere i discorsi celebrativi che nessuno ascolterà mai. È rigoroso nell’assicurarsi che queste anime siano accompagnate all’estremo riposo in modo dignitoso, sia che si tratti di un’anziana donna che, ogni anno, inviava un biglietto di buon compleanno al proprio gatto, sia che si tratti di un signore australiano le cui ceneri vengono spedite nel suo Paese natale per la sepoltura.
Presentato in concorso nella sezioni Orizzonti dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto il Premio per la regia, “Still Life” è un ritratto etico dolente e spietato della classe media, in questo caso britannica ma riferibile a qualsiasi realtà della società dei consumi. Il pignolo e inarrestabile John May, protetto dalla sua plumbea corazza di funzionario non indietreggia di un centimetro nel suo assalto alla desolazione umana che gli sbarra il passo ogni volta che prova a convincere parenti ed amici a scavare nel fondo della solidarietà e degli affetti, oramai inariditi e impigriti dalle delusioni di esistenze sprecate nella rincorsa alle chimere del benessere.
Quando lessi di questi funerali senza seguito – spiega nelle sue note il regista Uberto Pasolini -, rimasi colpito dal pensiero di tante tombe solitarie e di tante funzioni funebri deserte. È un’immagine molto forte. Mi misi a riflettere sulla solitudine, sulla morte, sul significato dell’appartenenza a una comunità e di come la consuetudine del buon vicinato sia oramai scomparsa per molti di noi. Mentre scrivevo la sceneggiatura mi sono sentito in colpa per non conoscere i miei vicini di casa e la mia comunità locale. E per la prima volta sono andato alla festa di strada del mio quartiere, sentendo il desiderio di partecipare a quel piccolo tentativo di creare un legame tra vicini“. Il senso della mancanza di impegno nei confronti della comunità ha alimentato in Pasolini riflessioni più profonde sulla società contemporanea. “Qual è il valore che la società attribuisce alla vita dei singoli individui? Com’è possibile che tante persone siano dimenticate e muoiano sole? – continua il cineasta – La qualità della nostra società si giudica dal valore che assegna ai suoi membri più deboli e chi è più debole di un morto? Il modo in cui trattiamo i defunti è un riflesso del modo in cui la nostra società tratta i vivi. E nella società occidentale, a quanto pare, è molto facile dimenticare come si onorano i morti. Sono profondamente convinto che il riconoscimento della vita passata di ciascun individuo sia fondamentale per una società che voglia definirsi civile“.
Pasolini ha trasferito le sue riflessioni nello splendido film su John May, funzionario comunale di mezza età, con un’esistenza ordinata e tranquilla, organizzata e ripetitiva in ogni dettaglio: tutti i giorni indossa gli stessi vestiti, percorre lo stesso tragitto per recarsi al lavoro, consuma lo stesso pasto a pranzo e di ritorno a casa si cucina la stessa cena. Ma un giorno gli viene assegnato un nuovo caso: Billy Stoke, un vecchio alcolista, è stato trovato privo di vita nell’appartamento di fronte al suo. E quando John visita l’alloggio del defunto vicino di casa, scopre l’immagine speculare e contraria della propria esistenza: tanta è ordinata la sua mediocre quotidianità quanto sgangherata e malridotta si mostra quella del vicino passato a miglior vita. Le certezze di John incominciano a scricchiolare, il suo tran-tran da automa in mezze maniche va in crisi e una serie di colpi di scena scatenano il suo terremoto interno. Pasolini è duro e impietoso nel descrivere i contorni sociali delle sue storie, ma è sempre positivo e generoso con i suoi protagonisti. E “Still Life” va in questa direzione, diritto e profondo, fino alla candidatura all’Oscar per il miglior film straniero.

“Still Life”, regia di Uberto Pasolini, con Eddie Marsan. Gran Bretagna, 2013.