
Milano. Roberto Latini (Arlecchino) e Federica Fracassi (Beatrice), in una scena di “Il servitore di due padroni”, da Goldoni, con la regia di Antonio Latella all’Elfo Puccini (foto Brunella Giolivo)
(di Paolo A. Paganini) Quando Strehler, nel 1947, mise in scena “Il servitore di due padroni”, Silvio D’Amico, storico maestro della critica teatrale, ebbe a scrivere: “Un bel coraggio ha avuto Strehler a non spaventarsi del paragone…”. Alludeva alla celebre mess’in scena goldoniana, di vent’anni prima, cioè “la prestigiosa regia di Max Reinhardt”. Oggi potremmo dire la stessa cosa di Antonio Latella, se volessimo rapportare il suo “Servitore di due padroni” all’edizione strehleriana (allora con Marcello Moretti, oggi – ancora in attività di servizio – con Ferruccio Soleri). Ma Latella non vuole paragoni. E, peraltro, non sarebbero nemmeno possibili. In un certo senso ha fatto piazza pulita sia di Strehler sia di Goldoni. Contestatissimo in Veneto (un bel coraggio in casa dell’impiccato!), grandissimo successo con il generoso e smagato pubblico milanese dell’Elfo Puccini. Eppure, la regia di Latella non mi azzardo dire che sia geniale, forse sfacciata, sì, senz’altro interessantissima.
Lui è partito da un presupposto: “se togliamo i salti, gli ornamenti, la recitazione meccanica, se togliamo le maschere, che cosa resta?”. Proviamoci. E allora ha creato come ambiente scenico una grande sala d’hotel (bella costruzione di Annelisa Zaccheria), con porte di camere a destra e a sinistra e, sul fondo, l’ascensore. Ci ha messo in mezzo un cerimonioso direttore fac totum in gran tenuta, Brighella, e una indaffaratissima servetta, Smeraldina, con inesausto aspirapolvere. Tutt’intorno i classici personaggi, in abiti – si sarà capito – moderni, e con caratteri di qualche larvatico richiamo goldoniano, da Beatrice a Florindo, da Pantalone a sua figlia Clarice, da Arlecchino al Dottor Lombardi e a suo figlio Silvio (in abito d’epoca solo per registico piacere derisorio).
Goldoni, quello classico, di tradizione, termina qui. Per il resto, il condimento è l’ormai inevitabile approccio omosex, un po’ d’inglese con relative canzoni pop, un accenno di servitù immigrata, ma con altre invenzioni semplicemente strepitose. Innanzitutto un Brighella che, al telefono di sala, introduce le didascalie originali di Goldoni (idea non nuova, ma qui ora fa terribilmente teatro); un Pantalone di tronfia sicumera (unico a usare il veneziano), un Arlecchino/Truffaldino biancovestito. Eppoi tutta una serie di monologhi al limite della follia logorroica, dove, più che Goldoni, c’entrano Marinetti, Petrolini, un po’ di Rascel (caspita, come gli somiglia il Brighella di Massimiliano Speziani) e un rosario di giaculatorie, ricette, elucubrazioni semantiche, con l’acme in un monologo di Smeraldina (Lucia Peraza Rios), bellissimo e incomprensibile. Ma se la parola è suono, l’effetto è assicurato.
A tutto questo si aggiunga una nevrosi scenica da centometristi. Ma non ci ha disturbato, come non ci hanno disturbato le ironiche movenze da Gatto Silvestro del già citato Brighella. Quello che invece ci ha sinceramente disturbato è stata la mancanza di misura di Latella, che sembra divertirsi oltre ogni limite con questo omerico scherzo teatrale di cosmico godimento. Ogni scena da lui inventata ha una legittima funzionalità, ma lo spettacolo, che dura due ore e quindici (senza intervallo, pietà per chi è debole di vescica!), diventa talvolta eccessivo, ripetitivo, inutilmente saccente, come il lazzo finale e celeberrimo della mosca.
Eppure, il napoletano Latella dovrebbe sapere che anche “a Venesia se dise che un bel scherso el dura poco”.
Ma che magnifico colpo di teatro, quando alla fine tutti gli attori si mettono a smontare la scena (quindi l’emblematica rappresentazione della finzione), lasciando, sul fondo, solo la televisione accesa: unica realtà oggi santificata, impossibile da smontare, simbolo massimo della finzione, pulpito e tabù dell’ipocrisia universale. Ma a tutti va bene così.
Del successo s’è detto all’inizio, ma sottolineiamo con un particolare piacere le prestazioni di Giovanni Franzoni (Pantalone), di Federica Fracassi (Beatrice), dello Speziani, della Peraza Rios e del bravo e acrobatico Roberto Latini (Arlecchino). Corretta e giusta l’affiatata (anche nel senso d’un gran fiato per questo faticoso allestimento) partecipazione, nelle altre parti, di Elisabetta Valgoi, Annibale Pavone, Rosario Tedesco, Marco Cacciola.
“Il servitore di due padroni”, da Carlo Goldoni. Regia di Antonio Latella. Al teatro Elfo Puccini, Corso Buenos Aires 33, Milano. Repliche fino a domenica 30 marzo (quando si conclude la tournée).