Concertone di S. Ambrogio. 3 ore, 23 cantanti. E un mitico Domingo. Scala senza pubblico. Ma più di tre milioni alla TV

MILANO, martedì 8 dicembre ► (di Carla Maria Casanova)Mai la inaugurazione di stagione lirica della Scala, il tradizionalissimo Sant’Ambrogio, avrà avuto un pubblico così ampio e numeroso. Le immagini del concertone dal travolgente titolo dantesco “… a riveder le stelle” trasmesso in Eurovisione in tutta Europa, arriveranno, grazie allo streaming, anche in Nord Europa, Russia, Corea, le America sud e nord Oceania. Paesi che, dopo la serata live, potranno godere dello spettacolo scaligero in seguito e averlo disponibile per ben 6 mesi.
In zona, scarse le possibilità che ci sia qualcuno rimasto all’oscuro dell’evento.
Ieri sera, tutti attaccati alla tv. Ma (sorpresa?) non si trattava di uno spettacolo live. Era stato interamente registrato, a pezzi, nei giorni scorsi. Né poteva essere altrimenti.
Volendo – dovendo! – fare qualcosa di diverso dagli altri teatri che, bene o male, si sono organizzati per proporre alla bell’e meglio un’opera, il neo sovrintendente Dominique Meyer e il direttore musicale e artistico Riccardo Chailly hanno rinunciato alla “Lucia di Lammermoor”, in programma e già avanti con le prove, e hanno optato per un megaconcerto, diciamo pure un concerto faraonico: uno spettacolo imponente, da poter esportare nel mondo intero con godimento generale, soprattutto per chi di opera lirica nulla sa né vuole sapere. E così è stato: un grande format televisivo che, nella sostanza, è quanto c’è di più distante dall’opera lirica. Ma tutto fa. Pavarotti cantava con Sting e, già negli anni Sessanta, i Swingle Singers inventavano arrangiamenti jazz cantando a cappella. Qui, intendiamoci bene, non ci sono state contaminazioni musicali. Tutta musica lirica doc, cantanti lirici doc, infilati in un gigantesco pot-pourri visivo.

Addirittura 24 voci liriche (diventate 25 con l’aggiunta di una registrazione di Mirella Freni, recentemente scomparsa, retrocesse a 23 per la rinuncia di Kaufmann e diventate 21 con la soppressione del duetto della Walchiria, seppur già registrato, tolto all’ultimo momento per l’intransigenza dei tempi televisivi: 3 ore dovevano essere, dalle 17 alle 20, più un quarto d’ora di convenevoli. I 14 minuti di Wagner avrebbero sforato. Campo al telegiornale!). Dunque spettacolo televisivo al cento per cento e cara grazia che non ci siano state interruzioni di pubblicità. Compresi nei tempi, invece, tre intermezzi di ballo. Ma qui si trattava dell’apparizione della nostra star Roberto Bolle e toglierlo avrebbe significato una pericolosa sollevazione da parte di tutto (o quasi) il pubblico femminile. Alcuni brevi interventi, non indispensabili, anzi inutili, di prosa. L’inizio, introdotto da Milly Carlucci e Bruno Vespa è stato faticoso. Confuso. Non si capiva se lo spettacolo fosse già iniziato o se stessero ancora provando. Alla voce fuori campo di Mirella Freni (“Io son l’umile ancella” dall’ “Adriana Lecouvreur”) sarebbe stato opportuno sovrapporre almeno di sfuggita la sua immagine. L’Inno nazionale affidato dalla recitazione sfiatata di un viso di donna in primo piano non mi è piaciuto proprio per niente. Per fortuna poi è stato ripreso in coro dai lavoratori tutti del teatro.

Per rendere la serata più godibile a un pubblico eterogeneo, il concertone si avvaleva di una elaborata regìa dovuta all’estro di Davide Livermore, il quale appunto è regista molto “cinematografico”, sulla linea Fura dels Baus, quelli che hanno portato il digitale in palcoscenico. Quindi proiezioni, stralci di allestimenti, spezzoni. Per dare continuità alle 3 arie di Don Carlo è stato recuperato il vagone di un treno sommerso dalla neve, paesaggio russo che ti fa pensare ad Anna Karenina, con poca attinenza con la Spagna di Filippo II, però è bello e funziona; Elisir d’amore è stato ambientato in una scena de La strada di Fellini, poi tramutata in una stazione grigia con molte donne che partono sole (perché? Elisir ha lieto fine). Ma non stiamo adesso a guardare troppo per il sottile. Norina del don Pasquale canta a bordo di una fuoriserie decapottabile bianca che viene assunta in cielo.”La mamma morta” (Chénier) ha per contorno le irrinunciabili truci immagini alla Ça ira! Certe porzioni di palco sono immerse nell’acqua. Le signore che cantano la loro aria senza commento scenografico indossano vestiti sontuosi. Tutto fa spettacolo.

L’orchestra della Scala era sistemata ad anfiteatro in platea. Il direttore Chailly dava spalle al palcoscenico. Qualche torsione ogni tanto per dare l’attacco al cantante che gli stava dietro. Duro lo sforzo, per direttore e orchestra, affrontare così tanti autori, stili (e cantanti!) uno in fila all’altro. Ma per direttore e orchestrali scaligeri queste sono bazzecole.

Nel cast, si è lamentata l’assenza di alcuni irrinunciabili nomi italiani, laddove non c’èra adeguato corrispettivo nelle presenze straniere. Sui 23 in cartellone pesavano alcune aspettative (anche certezze e qualche sorpresa) non andate deluse. Si intende il possente basso Ildar Abdrazakov (“Ella giammai m’amò”), il fiero mezzosoprano Elina Garanča (“O Don fatale”), il soprano Lisette Oropesa, rivelazione del Rof di Pesaro 2017. Famosa anche per il suo dimagrimento (40 chili persi con costanza e saggezza in 5 anni di regime. Adesso ha una figura da mannequin. Non è la prima ad essere riuscita in questa impresa…). Sarebbe dovuta essere protagonista della Lucia di Lammermoor. Ne ha dato un saggio superlativo con “Regnava nel silenzio”; il tenore dai virtuosismi estremi Juan Diego Florez qui impegnato nell’Elisir (“Una furtiva lacrima”). E il misconosciuto Bejamin Bernheim (da dove arriva?) impegnato in un notevole Werther (“Pourquoi me reveiller?”).
Le grandissime attese erano comunque per Jonas Kaufmann (poi assente per indisposizione) e per il superdivo Placido Domingo, il quale si è confermato ancor oggi leone dominante dell’arena lirica. Si è presentato come baritono (“Nemico della patria”) ma niente da fare: è tenore in eterno. Per Domingo si trattava della decima inaugurazione della Scala (la prima fu l’Ernani del 1969. Io c’ero, naturalmente. Per me, che l’anno scorso ho battuto il record mondiale delle 60 inaugurazioni scaligere, era allora il decimo Sant’Ambrogio. Perdonate l’inciso ma ci tengo moltissimo). La voce di Domingo, 80 anni (e c’è chi dice qualcosa di più) voce dal bellissimo colore brunito, è intatta sia pur oramai priva dello smalto originale. Ma non flette, non ha incertezze. “Conosco la mia voce meglio di chiunque altro – dice Domingo. – Smetterò di cantare il giorno che la sentirò cedere. Non un giorno dopo. Ma non un giorno prima.” Quel giorno non è ancora arrivato.

Per gli amanti doc della lirica, ascoltare 23 voci di interpreti diversi che cantano uno dopo l’altro arie di opere diverse, è uno stress non da poco. Non c’è atmosfera, interpretazione, progressione espressiva, racconto, situazione che evolve, non è possibile nessun giudizio e comunque è complicatissimo adeguarsi a vocalità che cambiano continuamente. In questo caso poi, senza colpa di nessuno, è terribilmente castrante l’assenza di applausi (e chissà quanto lo deve essere per i cantanti). L’opera lirica, il melodramma nel suo aspetto ruspante (c’è chi dice becero) è anche l’acuto con applauso.

Dal lato economico questa operazione di emergenza sarà certamente un affare d’oro per la Rai. Si spera che anche la Scala ne tragga cospicui vantaggi. Gli esborsi sono stati faraonici. Basti pensare ai cachets e alle condizioni spuntate dagli agenti per i 23 cantanti. Per esempio, per Domingo è stato messo a disposizione un aereo privato per raggiungere, in serata stessa, San Pietroburgo dove, tanto per non perdere l’abitudine, Domingo si trova per impegni di lavoro. Quale sigla beneaugurante di questa megaemergenza, magari non ci stava male il Vincerò di Luciano Pavarotti, oramai sigla mondiale del melodramma per tutti i tempi e tutti i luoghi.