(di Patrizia Pedrazzini) “Pacific Rim. La Rivolta”, ovvero, cinque anni dopo, il sequel (e a questo punto anche il secondo capitolo di una nuova saga) che non si doveva fare. Perché il film del 2013, a fronte di un budget di 190 milioni di dollari, negli Usa era arrivato a incassarne 101, che è un po’ come dire che fece fiasco. E perché il regista del primo “Pacific Rim”, Guillermo del Toro, pur avendola inizialmente accarezzata, si era allontanato presto dall’idea di dirigere anche il sequel, preferendogli “La forma dell’acqua” (e i suoi quattro Oscar). Solo che poi era accaduto l’imprevisto: nel resto del mondo la pellicola ne aveva incassati altri 309, di milioni di dollari, e di questi un centinaio in Cina. Mentre, nel 2016, il gruppo cinese Wanda Group ha acquistato, per 3,5 miliardi di dollari, la Legendary Pictures. Con la quale, chiamatasi fuori dalla produzione la Warner Bros, la Universal ha immediatamente fatto squadra. Assicurato il capitale, ecco subito pronta anche la nuova regia, nella figura di Steven S. DeKnight e del suo curriculum foriero di azione e spettacolo: “Buffy”, “Angel”, “Smalville”, “Spartacus” (la serie e la miniserie prequel) e la prima stagione di “Marvel’s Daredevil”. Ed ecco confezionato il sequel: dieci anni dopo, mostruosi (e più grandi) Kaiju sbucati da una nuova breccia interdimensionale attaccano ancora la Terra, ma dovranno vedersela con i nuovi Jaeger, robot ancora più giganteschi dei precedenti, di seconda generazione, mossi e guidati da piloti nuovi, ma sempre votati a salvare il genere umano dall’estinzione.
Un sequel che al primo capitolo, va subito detto, attinge a piene mani: nella storia, nelle figure dei protagonisti (alcune, come l’allora giovane Mako Mori e l’oggi quindicenne Amara Namani, estremamente somiglianti sia come carattere che per vicende trascorse), nello sviluppo e nei tempi della vicenda (una certa lentezza iniziale, i primi scontri, le sconfitte, la vittoria finale). Lo stesso Jake Pentecost (John Boyega, “Star Wars: Il risveglio della Forza” e “Gli ultimi Jedi”), figlio dell’eroico comandante Stacker del primo episodio, inizialmente giovane scavezzacollo capace solo di divertirsi e di cacciarsi nei guai, non ci mette molto a ripercorrere, con coraggio e determinazione, le orme paterne.
Scontata, ovviamente, l’ambientazione cino-giapponese (con una introduttiva deviazione in Australia), il cast si avvale di interpreti vecchi (Rinko Kikuchi è Mako Mori, Charlie Day il dottor Newton) e nuovi. Fra questi ultimi – e dopo la defezione del lanciatissimo Charlie Hunnan, il Raleigh del primo film – il trentaduenne Scott Eastwood, figlio di Clint (e con alle spalle ruoli in film come “Fury”, “Suicide Squad”, “Fast & Furious 8”), nei panni del pilota Nate Lambert, e la giovane Cailee Spaeny in quelli di Amara, hacker e co-pilota di Jake, nonché costruttrice di Jaeger.
Quanto all’inevitabile confronto con il primo film, e al di là delle differenze legate alle dimensioni dei mostri alieni e dei mecha, i giganteschi robot di tanti manga e anime, il sequel si caratterizza non solo per scelte scenografiche (là il mare in tempesta, la notte, la pioggia; qui il giorno, il sole, la luce), che inevitabilmente sottraggono fascino alla storia, ma anche per una certa, forse conseguente, mancanza di “carattere”. Per cui, sì, l’azione e lo spettacolo sono garantiti, anzi stra-garantiti, e confezionati in maniera egregia, ma a uso e consumo di una platea meno complessa, per certi versi più superficiale, sicuramente più occidentale, se non decisamente americana. Via i rimandi all’etica nipponica del film di del Toro, spazio alle eterne, e sempre vincenti, dinamiche del cinema made in Usa. Battute comprese: “Abbiamo già sacrificato tanto, ma la guerra che credevamo finita è appena cominciata. E l’unica cosa che può fermare l’Apocalisse, siamo noi!” (Jake Pentecost).
Continua la guerra fra Kaiju e Jaeger. Spettacolo garantito, ma con un po’ di Giappone in meno e tanta America in più
22 Marzo 2018 by