(di Andrea Bisicchia) Più che sulla comicità, David Le Breton, nel suo libro: “Ridere, antropologia dell’homo ridens”, Cortina Editore, si intrattiene sul Riso ricercandone le fonti sociali e culturali che, a suo avviso, cambiano da un luogo e da un tempo all’altro, anche perché assumono forme di comunicazione diverse.
C’è la risata ironica, quella umoristica, quella trasgressiva, quella meccanica, di cui si era occupato Bergson, quella del motto di spirito già indagato da Freud.
Le Breton è un antropologo di fama mondiale, nel suo studio, che divide in sette intensi capitoli, esprime la sua visione del Riso ricorrendo anche alla storicizzazione, partendo dai Libri sacri occidentali e orientali che si sono occupati dell’argomento, per passare a quelli filosofici, da Platone ( Le Leggi), ad Aristotele che, nella “Poetica”, assegnava uno spazio inferiore alla Commedia rispetto alla Tragedia, mostrandosi meno suscettibile di Platone che riteneva il Riso un fenomeno che appartiene alle classi inferiori.Non è da meno la concezione cristiana, non tutta, a dire il vero, che sottolinea la nocività del Riso adducendo, come scusa,che Cristo non ha mai riso. Si tratta di disquisizioni ben note, dalle quali Le Breton si distacca, nel momento in cui affronta l’argomento dal punto di vista antropologico, ritenendo, il Riso, un fatto sociale che può essere utilizzato per conoscere aspetti particolari della cultura di un popolo, essendo convinto che ogni contesto culturale contenga un suo modo di elaborare il Riso, con delle linee guida ben precise e con delle caratteristiche socializzanti, in quanto mette in relazione, non soltanto gli individui, ma anche i gruppi che partecipano all’evento che ha suscitato il riso.
L’indagine antropologica è ben diversa, sia da quella filosofica che teologica, è più attenta al Riso Carnascialesco o al Risus Pascalis, perché frutto di una partecipazione popolare che ha poco a che fare con i distinguo fatti dai Padri della Chiesa, per alcuni dei quali, il Riso è conseguenza del peccato, benché Paolo abbia invitato i Filippesi, nella Lettera a loro inviata, di godere dell’allegria e benché Tommaso Moro abbia assicurato che il buon umore è necessario alla salute del corpo. Anche Le Breton è convinto di questo perché ritiene che il Riso si possa associare a una forma di particolare piacere, essendo, spesso, generatore di gioia, di buon umore, oltre che il mezzo per dissimulare una contrarietà o un fallimento, grazie alla sua capacità di creare un distacco dalle emozioni.
È soprattutto nelle relazioni sociali che il Riso evidenzia la sua particolarità, in quanto accompagna le discussioni, rendendo più forti le relazioni, addolcendo i legami, producendo una sua “ritualità” originata dal suo relazionarsi con gli altri. Insomma, il Riso è capace di sdrammatizzare persino la morte, grazie a una sua alchimia che lo fortifica, che lo rende protettivo contro le avversità, benché la sua durata sia brevissima quanto quella del piacere.
Per Le Breton, il Riso si “colloca sulla linea d’ombra tra il riflesso (sociale) e la riflessione”, per questo motivo non va sempre associato alla comicità, avendo a che fare con “un’arte sociologica intuitiva” che obbedisce a delle ritualità che appartengono alla vita quotidiana, con i suoi dolori e le sue turbolenze. In questi casi, il Riso, per alleviare le difficoltà del vivere sociale, si pone come arma di diffesa contro l’angoscia, la paura e la solitudine.
David Le Breton, “Ridere – Antropologia dell’homo ridens”, Cortina Editore 2019, pp 254, € 23.