Giovedì, 4 dicembre ●
(di Marisa Marzelli) Ogni anno il 79.enne Woody Allen sforna un nuovo film; ormai ne ha diretti una cinquantina. Si dice, non senza buone ragioni, che ne alterni uno di alto livello e uno trascurabile (per il suo standard). La scorsa annata, con Blue Jasmine, è stata ottima. L’attuale, con Magic in the Moonlight, non altrettanto convincente. È uno di quei suoi prodotti medi, che confeziona con una – peraltro allenatissima – mano sinistra, senza grande inventiva e andando a ripescare temi già trattati, magari marginalmente, nel suo ampio repertorio di idee.
Presentato in anteprima al recente Torino Film Festival, Magic in the Moonlight è una commedia sofisticata ambientata nei tardi anni ’20. Il raffinato inglese Stanley Crawford (Colin Firth), che si esibisce travestito da cinese, è un illusionista di successo, specializzato nel far sparire persino un elefante e nel teletrasporto. Nel quotidiano è un individuo freddo e razionale, abile nello smascherare falsi sensitivi. Quando un amico gli racconta che una giovane medium (Emma Stone) ha incantato una famiglia di ricchi americani in vacanza nel sud della Francia, accetta di provare a svelarne gli imbrogli. È convinto che la veggente, di bassa estrazione e poco acculturata, sia fasulla. Ma la ragazza è deliziosa e per un attimo l’uomo accarezza l’idea che le sue doti medianiche possano essere autentiche. Il trucco c’è e Colin Firth deve ammettere che nella vita la scelta è tra saper spiegare e controllare tutto e rimanere tristi e soli o abbandonarsi alle illusioni per tentare di essere felici. Perché è l’amore il più piacevole degli inganni. Le schermaglie verbali tra i due protagonisti vanno di pari passo con le riflessioni dell’autore sul rapporto razionale/irrazionale, realtà/magia e, in fondo, ateismo/fede.
Allen sviluppa il tema con leggerezza di tocco e una punta di superficialità che soddisfano chi al cinema chiede non più di una serata di elegante svago. Le ambientazioni, in Costa Azzurra e Provenza, sono esaltate da una luce flou e un po’ fiabesca, i costumi femminili sono bellissimi, i comprimari restano sullo sfondo ma con qualche pennellata d’ironia. La regia è collaudata nel saper proporre solo le inquadrature essenziali per far avanzare il racconto. Manca un guizzo di novità e a tratti si affaccia la noia per la sensazione di un déjà vu alleniano.
Il tema del confrontarsi con il magico (nel senso di illusionismo) era già stato toccato dal regista di Manhattan in altri suoi lavori come Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, La maledizione dello scorpione di giada o Scoop ma in quei casi era un espediente narrativo, una trasparente metafora per far avanzare la storia. Qui invece diventa l’argomento centrale, la ricerca di un punto d’incontro – o di compromesso – tra materia e spirito, tra corpo e mente, tra spiegabile e trascendente. Perciò il suo percorso d’autore, anche nei film meno impegnativi come questo (che stizziscono la critica, in attesa da lui sempre del meglio), è coerente ed evolve con svolte imprevedibili, segno di un autore che non ha ancora perso colpi.
Dal cilindro del suo vasto repertorio di idee, Woody Allen, tra realtà e magia, estrae il gioiellino d’un elegante svago
4 Dicembre 2014 by