Debutto della Béasse. Nel segno della terra, il destino di uomini. E di alberi. Fatti di terra, che poi torneranno terra

VENEZIA, sabato 29 luglio ► (di Paolo A. Paganini) Sembrava, all’inizio, una versione moderna della tradizione marionettistica, dove gli operatori, sul “ponte”, muovono i fili dei pupi che, più in basso si scontrano in eroiche battaglie contro turchi e barbari.
Qui, nella prima italiana di “Le bruit des arbres qui tombent”, ideata e diretta da Nathalie Béasse per la Biennale Teatro, gli “operatori” son quattro: Estelle Delcambre, Karim Fatihi, Erik Gerken e Clément Goupille. Si sistemano ai quattro angoli del palcoscenico del Teatro Piccolo Arsenale, e manovrano i fili dal basso verso l’alto, da dove scende un incombente telone nero, con le dimensioni della bocca del palcoscenico, e lo animano come il tragico segno di una universale tragedia: sovrasta, plana, copre, fugge a sghimbescio, si rialza, cade, scopre e nasconde, caprioleggia in indomite e ferite animalità, si placa e infine, con l’abile maestria dei quattro “burattinai”, conclude, dopo venti minuti, la sua performance, accompagnata da una struggente sinfonia di violini e suoni d’arpa.
Ora sono i quattro reggitori di fili, che prendono possesso della scena, senza più i limiti imposti dal nero e gigantesco aquilone. Compongono a loro volta sincroni balli e pantomine, squinternate azioni senza senso, com’è a volte la vita, patetici racconti di case sperdute in lontane campagne, di famiglie felici, o forse no, di miserie e grandezze, di vite ordinate con le stagioni e con le cadenze della vita e della morte, scomparendo poi nel nulla.
E i quattro cavalieri di questa inimmaginabile apocalisse, mimano e si denudono, si dibattono negli affanni senza tregua di fatali lotte contro il nulla e di patetiche rievocazioni di bibliche genealogie. Esistenze emblematiche, non solo come metafore di alberi che cadono con fragore, ma anche di un’umanità che continua a schiantarsi senza un perché, soltanto perché è casualmente nata e morirà in una individuale catastrofe senza memorie, come ogni albero che muore e si schianta. Da solo. Lasciando il posto ad altri alberi… E ben sappiamo che “a egregie cose… l’urne de’ forti… bella e santa fanno al peregrin la terra…” è soltanto una bella poesia del Foscolo sepolcrale. Tutto nasce dalla terra e tutto torna alla terra. Amen. Più nulla resterà.
Questo non è ovviamente il messaggio della Béasse, ma si desume dalla sensazione generale di uno spettacolo di poco più di un’ora, tirato allo spasimo, e con momenti di una bellezza singolare e travolgente, alternati ad altri momenti di chiara impostazione sperimentale e avanguardiera. D’altra parte, uno spettacolo o nasce per divertire o è fatto per far riflettere. Altri spettacoli sono fatti solo di sensazioni, forti ed inquietanti. Come questo. Che tuttavia offre alcuni punti fermi e chiaramente espliciti: il buio cielo di ipotetici diluvi universali, la terra che diventa tutt’uno inumandosi con gli attori, la leggerezza soavemente poetica o angosciosamente patetica dell’essere umano nella sua inutile lotta contro l’ineluttabilità.
Una particolare annotazione di merito per Estelle Delcambre, senza nulla togliere alla generosa dedizione degli altri attori. Tutti alla fine applauditissimi (fin troppo?) in questa prima puntata della piccola “antologia” di quattro spettacoli dedicati a Nathalie Béasse.