Debutto scalognato. Influenza per il protagonista. Sostituito. Problemi anche per il secondo. Ma infine Borras. Notevole

VENEZIA, sabato 26 gennaio (di Carla Maria Casanova) “Werther” o “Pourquoi me réveiller?” (il celebre verso dei canti di Ossian) alias “Ah non mi ridestar”. Da quando le opere vengono date in lingua originale, questa  aria con inclinazione al sublime, è entrata nell’immaginario popolare anche nella versione francese,  come avviene alla Fenice, dove l’opera di Massenet è andata in scena ieri sera, diretta da Guillaume Tourniaire e con regia di Rosetta Cucchi (edizione di Bologna 2016).
È singolare che quest’opera, che più francese non si può, fu rappresentata in prima mondiale a Vienna, in lingua tedesca (1892). L’impresario Carvalho, direttore de l’Opéra-Comique, non aveva ritenuto opportuno programmare in patria un soggetto ricavato dal poeta nazionale tedesco all’indomani della (perduta) guerra  franco-prussiana. Un dettaglio commovente è invece che Massenet, pur avendo iniziato a mettere in musica il testo goethiano basandosi su versi di Edouard Blau e Paul Millet e solo sulla sceneggiatura di Hartmann, attribuì a quest’ultimo la paternità nominale dell’intero libretto per soccorrere l’amico con una parte dei diritti d’autore dopo il fallimento della sua impresa editoriale.
Dunque “Werther” di Goethe/Massenet. La storia, portabandiera del romanticismo, è arcinota e nemmeno troppo inusuale. Werther incontra Charlotte e tra i due nasce l’amore, ma lei è promessa ad Albert che sua madre sul letto di morte le ha fatto promettere di sposare. (Ah, queste madri impiccione e queste figlie troppo devote!) Risultato: né Charlotte né Werther si danno pace, lui addirittura si suicida, e con la scusa di un lungo viaggio, ha il cattivo gusto di andare a chiedere le pistole in prestito al marito di lei. Nell’opera, però, lui vive quanto basta per scambiare con lei l’addio disperato (vedi Giulietta e Romeo e… tanti altri). Questo addio in musica, a mio parere, è esasperatamente lungo. Werther non finisce mai di morire. Sia ben chiaro che questo straziante duetto regala sempre al pubblico una intensa emozione.
Alla Fenice il protagonista, se non proprio morto, è stato vittima di una sorta di malocchio: il titolare Piero Pretti, influenzato, sostituito alla prova generale dal francese Sébastien Guèze. Problemi anche per il secondo tenore, che ha reso necessaria una nuova sostituzione. Alla prima si è potuto trovare libero Jean-François Borras, tenore poco più che quarantenne di pregevole curriculum. L’ho ascoltato per radio, avendo presenziato alla prova generale. Mi è sembrato davvero notevole. Inutile dire che per Werther laggiù, in fondo alle orecchie, aleggiano sempre le note di Tito Schipa, Giuseppe di Stefano, Alfredo Kraus. E allora si è fregati in partenza.

Teatro La Fenice: “Werther”, di Massenet. Direttore: Guillaume Tourniaire. Regia: Rosetta Cucchi. Scene: Tiziano Santi (foto Michele Crosera)

Nei panni di Charlotte, ruolo di enorme impegno, c’è Sonia Ganassi, mezzosoprano doc. Molto bene nel terzo e quarto atto, quelli drammatici. Pregevole anche la dizione francese. Ma essendo lei una signora di placide forme casalinghe, non le conviene saltellare garrula nel bosco mentre Werther rapito le legge poesie. Qui stava alla regista intervenire, ed anche acconciarla con abbigliamento attraente e non con il grembiulone da cuoca.
Sbiadito il Bailli (Armando Gabba), onesto Albert (Simon Schnorr) il marito “così fortunato” (ma non troppo) che viene regolarmente odiato da tutte le spettatrici, quale causa di tanta sciagura. E forse lo è, se imponendo a Charlotte di consegnare a Werther le pistole, lo fa (buona l’intuizione della Cucchi) scaraventando a terra tutte le lettere del rivale a sua moglie. Ah, ma allora sapeva!!!!
Nel cast, una vocetta terribile è quella di Pauline Rouillard (Sophie).
Il maestro Tourniaire, francese con studi a Ginevra, direttore del coro della Fenice nel 2001, passato poi al podio e con carriera internazionale, potrebbe essere (già, è francese!) il direttore ideale per Werther. Ma non è obbligatorio. A me è parso imprimere all’orchestra della Fenice un ritmo più severo che poetico, più irruento che sensuale, e ciò anche se Werther, l’opera del delirio amoroso, al di là delle sue melodiose rapsodie è sicuramente un condensato di violenti contrasti. Grande l’impegno per i bambini del Kolbe Children’s Choir.
Rosetta Cucchi, regista considerata d’avanguardia, o comunque non tradizionalista, ha chiesto allo scenografo Tiziano Santi e alla costumista Claudia Pernigotti di allestire un ambiente anni ‘40. L’atmosfera ricorda quella de Il giardino dei Finzi Contini (film), forse per l’indulgere del bianco o per quel domenicale pic nic primaverile (“le bonnheur est dans l’air! tout le monde est joyeux”). Dai compassati festaioli non traspare però una gran allegria. L’opera è qui incentrata sulla casa, in senso fisico e come concetto famigliare. Casa che appare prima nello spaccato della dimora del Bailli, poi nella sagoma della facciata che domina la scena. Piace lo studiolo di Charlotte con la parete a libreria e la luce rossa soffusa.
L’idea-base della Cucchi è aver messo, fuori campo, una poltrona, da dove Werther ricorda la sua infanzia e sogna il futuro impossibile di una famiglia sua con Charlotte (sogno ricostruito con immagini di amorevoli scenette famigliari). Queste immedesimazioni del regista con la mente del compositore e/o protagonista, sostituendosi ai suoi pensieri, mi hanno sempre dato sui nervi. L’opera lirica dice già tutto da sola. Ma qui non sono illazioni invasive.
Adesso tocca fare il punto. Passando la palla al pubblico è doveroso segnalare un caldo successo. E il pubblico ha sempre ragione. O no?

Teatro la Fenice – “Werther” di Jules Massenet. Repliche domenica 27 gennaio ore 15,30; martedì 29, giovedì 31 ore 19; sabato 2 febbraio ore 15,30; giovedì 28 marzo, in differita, ore 21,15 su Rai 5.