Di nuovo alla Scala, dopo 60 anni, Francesca da Rimini, la bellissima e sciagurata istoria di Zandonai (e D’Annunzio)

Maria José Siri (Francesca) e Marcelo Puente (Paolo).

MILANO, lunedì 16 aprile (di Carla Maria Casanova)Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai alla Scala, dopo 60 (59) anni. L’ultima fu la famosa edizione diretta da Gavazzeni, protagonisti Magda Olivero e Mario del Monaco (maggio 1959). L’ho vista. Ed anche una recita peregrina al Grande di Brescia, il 1° febbraio 1970, con Giacinto Prandelli, il più grande di tutti i Paolo (di Paolo e Francesca). Fu la sua recita di addio alle scene. Andai a sentirlo con Mafalda Favero, sua collega di un tempo, in una sera di nebbione come adesso non ci sono più. Fummo tentate più volte di fare dietrofront e tornare a Milano. Per fortuna non desistemmo.
Perdonate questo esibizionismo: è il privilegio della vetustà (mia). Tengo queste date tra i miei ricordi lirici più vibranti.
In anni recenti “Francesca da Rimini” è quasi scomparsa dalle scene. Purtroppo. È opera bellissima, che si inserisce nella storia: dimostrò che poteva esistere un “dopo-Puccini”. Anche (soprattutto?) nella eccezionale scelta del testo, la tragedia di D’Annunzio, che Tito Ricordi magistralmente aggiustò per il canto in un rapinoso libretto.
Zandonai si innamorò dei due personaggi danteschi quando aveva 16 anni e, partendo dal verso “O anime affannate” del V canto dell’Inferno, mise in musica una scena per tenore e orchestra. Del progetto si ricorderà da compositore, meditando per il libretto una collaborazione con Giovanni Pascoli. Il progetto pascoliano, fortunatamente, andò a monte e venne buona la tragedia di D’Annunzio, che riscuoteva grandi successi (anche se Zandonai non ebbe mai eccessiva stima del Vate).
Quest’opera di gusto preraffaellita non avrebbe potuto trovare interprete letterario più sensualmente avvolgente di D’Annunzio, che inizia il racconto di Paolo a Francesca “Perché volete voi ch’ io rinnovi nel mio cuore la miseria di mia vita?” con le parole di Enea a Didone “Infandum regina iubes renovare dolorem” (mitica frase virgiliana che tutti in ginnasio abbiamo studiato a memoria). La dolce Francesca aveva cercato di prender tempo “È dolce cosa vivere obliando, almeno un’ora, fuor della tempesta che ci affatica…”, ma era vana schermaglia amorosa. La passione scoppierà irrefrenabile. Con le conseguenze che si sanno.
Questa atmosfera infuocata, tradotta anche dalla musica con trasparenze trasognate (nel primo atto compaiono strumenti come il liuto, il piffero, la ribeca) e furori belluini (i Malatesta sono gente di guerra) corrisponde come si è detto, all’universo preraffaellita. Per capirci in immagini, Dante Gabriele Rossetti. A tale artista, o comunque al suo mondo, anche il regista britannico David Pountney dice essersi ispirato.
Qui c’è un malinteso. Nulla è più lontano dal preraffaellismo dell’allestimento della “Francesca da Rimini” della Scala, costruita su un impianto metafisico bianco e nero. Bianco per l’elemento femminile, identificato in un grande algido busto di donna alla Canova, riproposto nel secondo atto trafitto da spilloni; nero per l’elemento maschile, la tetra dimora dei Malatesta (formidabile, la articolata struttura del castello, da cui spuntano minacciose bocche di cannoni).
Nell’atto primo, è vero, le donzelle di Francesca, nella solare casa dei Polenta a Ravenna, portano allegre vesti e fiorite acconciature, ma, arrivate a Rimini, si trasformano in dattilografe in uniforme militaresca che nulla hanno da spartire con le damigelle cui Francesca chiede di non infastidirla con le loro amene “ciance”. In tale contesto diventano azzardate certe scene (vedi il leggendario “bacio”) specie quando per protagonista non c’è una elegantissima Kabaiwanska o una sontuosa Dessì (mitiche Francesche), ma una signora che vira piuttosto a Botero. In questi casi, rotolarsi con l’amante sul libro galeotto trasformato in letto a due piazze, non va bene. Anche perché il pur aitante Paolo piomba in camera intabarrato in una sorta di nero abito talare, che metterebbe a freno ogni tentazione. Ma tant’è, nessuno li ferma, quei due, e mal gliene incoglierà, come sappiamo.
Per fortuna cantano con proprietà, gli interpreti di questa Francesca, e pronunciano chiaramente il bellissimo testo, anche se alla uruguayana Maria José Siri manca fascino e all’argentino Marcelo Puente, dallo squillo sicuro, manca il lato dell’amante doloroso.
Convincono Gabriele Viviani, il truce Gianciotto (però a Francesca si rivolge sempre con un rispettoso  “mia cara donna”, quindi così orrido forse non era) e il malefico Malatestino, Luciano Ganci, il quale ha ammesso di non aver “mai fatto un ruolo così cattivo”. Tra le donne di Francesca, la migliore mi è parsa Idunnu Münch (Smaragdi).
Sul podio, Fabio Luisi conduce l’orchestra della Scala con grandissimo piglio, o forse è stata la recente assegnazione della qualifica di migliore orchestra lirica al mondo, a imprimere questa sonorità autorevolissima (forse un tantino troppo). Il Coro, quello sì il migliore del mondo, sempre diretto da Bruno Casoni, si è comportato come al solito: alla grande. I quattro atti dell’opera sono raggruppati in due parti per un totale di 140 minuti più 30 di intervallo. Molti gli applausi.

“Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, direttore Fabio Luisi, regìa David Pountney, scene Leslie Travers, costumi Marie-Jeanne Lecca. Teatro alla Scala. Repliche: 18, 21, 26, 29 aprile e 2, 6, 10, 13 maggio).

www.teatroallascala.org