MILANO, mercoledì 12 ottobre – (di Paolo A. Paganini) – Padri e figli. Non sempre godono di classiche simbologie di amore e dedizione, da parte dei padri e da parte dei figli. Non sempre rispecchiano le classiche iconografie della pietas. Come quando Troia cadde, ed Enea, caro agli dei, per mettere in salvo il padre Anchise, vecchio e stanco, lo portò in salvo caricandoselo sulle spalle.
Nello shakespeariano “Re Lear” la storia si rovescia. Il rapporto padri-figli è semplicemente un disastro.
Il vecchio Lear, autoritario e con qualche segno di sclerotica demenza, rinuncia al regno, e lo divide fra le due figlie, le malvagie Goneril e Regana, autentiche carogne, diseredando, invece, la terza figliola, la giovane e buona Cordelia, l’unica che amasse davvero il padre, ma con il torto di non sapere esprimere a parole il proprio sincero affetto.
Nel frattempo, il bastardo e malvagio Edmund diffama il virtuoso ed ingenuo fratello Edgard, screditandolo agli occhi del padre, il duca di Gloucester, non meno ingenuo del figlio Edgard, il quale è costretto a fuggire, camuffandosi con quattro stracci come un mendicante fuori di testa. Edmund intanto riesce a mettere in cattiva luce anche il padre denunciando un complotto contro le figlie di Lear. Al povero vecchio, scoperto, vengono cavati gli occhi.
Lear, per il dolore, perde il ben dell’intelletto. Gloucester, ottuso e credulone, da non vedere la verità, perde gli occhi.
Il bene e il male si confondono. E tutti perdono qualcosa, soprattutto la vita. Le perfide Goneril e Regana finiscono di pugnale e di veleno; il malvagio Edmund è ferito a morte in un duello con Edgard; la buona Cordelia viene strangolata; il vecchio Lear muore di crepacuore sul corpo della figlia; si perdono i regni; vengono disfatte le proprietà. Tutto non sarà più come prima. “È una tragedia cosmica e un dramma generazionale” ebbe a dire Strehler nel 1972, quando allestì il suo memorabile “Lear”, dimostrando quanto avesse tutto capito del risvolto tragico di “questa enorme allegoria della vecchiezza, del dolore che fa ciechi…”.
Non altrettanto sembra aver capito, ora, Giuseppe Dipasquale, che firma adattamento, regia e scene del “Lear” in scena al Teatro Franco Parenti, in due tempi di un’ora e mezzo ciascuno. Vengono raggiunti ineguagliabili apici di incredibili banalità, tra la bruttezza e il ridicolo. La scena, inesistente, è un posticcio e lugubre sudario che fa da fondale, salvo un trasparente velario in primo piano come incombente ragnatela. Scena decisamente fastidiosa, che lascia margini soltanto alla fantasia dello spettatore nell’immaginarsi i vari luoghi deputati. Gli attori, che in verità ce la mettono tutta (bravo soprattutto il salvifico Mariano Rigillo-Lear), vestono costumi (di Angela Gallaro) che più brutti e cenciosi non si può. Ma – udite udite – a vedere muscolosi interpreti maschili nei ruoli di Goneril e Regana, come grottescamente usciti da un vecchio spettacolo di Lindsay Kemp, c’è da scompisciarsi dal ridere. La scelta delle musiche, che non so di chi siano, vorrebbe sottolineare i punti salienti della tragedia, risultando solo fastidiosamente appicicaticcia. L’ingresso del matto fool, che poi è il vero saggio, è annunciato da una voce celeste come una discesa dello Spirito Santo (che poi non si capisce perché mai solo lui/lei abbia il microfonino), con lo straniante risultato di una discrasia rispetto alle libere e pur belle e chiare voci dei compagni di scena.
Rimane da dire che il testo shakespeariano è sempre superbamente esaltante. Da seguire a occhi chiusi. Pubblico gentile e plaudentemente civile. Si replica solo fino a domenica 16.
“Re Lear”, di William Shakespeare, traduzionedi Masolino d’Amico, adattamento, regia e scene di Giuseppe Dipasquale. Con Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini, Sebastiano Tringali, David Coco, Filippo Brazzaventre, Silvia Siravo, Giorgio Musumeci, Luigi Tabita, Ugo Bentivegna, Enzo Gambino,Roberto Pappalardo. Costumi di Angela Gallaro. Produzione Teatro Stabile di Napoli. Al Teatro Franco Parenti, Milano.