“Dogman”. La forza salvifica dell’amore e dell’arte. In un film sull’empatia fra uomo e cane. Con un grande Landry Jones

(di Patrizia Pedrazzini) Direttamente dal Festival di Venezia (dove peraltro nessuno lo ha degnato, quanto a premi, della minima attenzione), arriva sugli schermi “Dogman”, duro, struggente, romantico e disperato ultimo lavoro del regista francese Luc Besson (“Léon”, “Il quinto elemento”, “Giovanna d’Arco”). Per qualcuno, una “favola nera”. Ma i Fratelli Grimm sono lontani e, quanto alla chiara “umanità” dei cani che affollano la pellicola, se in alcuni momenti ha dell’incredibile, chi conosce bene la profonda empatia che lega questi animali all’uomo, non ne rimarrà stupito.
Senza anticipare troppo, il film è la storia di Douglas, “Doug”, ragazzino buono, sensibile e intelligente, nato e cresciuto nella famiglia sbagliata. Un padre violento e mezzo psicopatico, un fratello maggiore che non gli è da meno, una madre succube e terrorizzata. I soli amici che ha sono i cani – qualche decina – che il padre tiene chiusi in una grande gabbia nel cortile della casupola nella quale la famiglia vive, affamandoli per farli combattere meglio. Doug li nutre di nascosto, e quando l’uomo se ne accorge, per punirlo, lo rinchiude con gli animali. Non contento, allorché il figlio cerca di difendere una cucciolata, gli spara un colpo di fucile, facendogli saltare un dito. Solo che per disgrazia il proiettile rimbalza, conficcandosi nella spina dorsale del ragazzino, che rimarrà paralizzato per tutta la vita.
Da quel momento i cani, tutti, lo curano, lo proteggono, lo aiutano, arrivano a interpretare i pensieri di Doug, che di fatto diventa il loro capobranco, ripagandoli con la stessa generosità che gli animali riservano a lui. Sfamandoli, difendendoli, dialogando con loro a sguardi, istruendoli (e la scena nella quale Douglas, ormai adulto, legge Shakespeare ai propri “bambini”, seduti e accucciati ad ascoltarlo in religioso silenzio, è impagabile).
Non andiamo oltre. Ma diciamo almeno che “Dogman” è sì un film sul rapporto fra uomo e cane, ma anche sul potere salvifico dell’amore e dell’arte, sul valore dei reietti e degli emarginati, non di rado migliori proprio perché conoscono il dolore (i pochi minuti riservati al calore e all’affetto che Douglas trova in un club di drag queen, nel quale lui stesso si esibisce, equivalgono, da soli, a un brevissimo film nel film). E su Dio. Quel dio che quando Doug era bambino probabilmente era distratto, e con il quale l’uomo ha un conto in sospeso. E d’altra parte non sarà un caso che dog, cane, alla rovescia faccia god, dio.
Il tutto sorretto alla grande dall’eccellente colonna sonora di Éric Serra, che attinge a piene mani a brani del calibro di “La Foule” di Édith Piaf, “Lili Marleen” di Marlene Dietrich, “Sweet Dreams” degli Eurythmics, per citarne solo tre.
E poi c’è lui, il protagonista, il trentaquattrenne attore, e musicista, americano Caleb Landry Jones: dolce, riservato, quasi timido, eppure all’occorrenza risoluto, crudele e spietato. Quasi perennemente in bilico fra gentilezza e follia. Affascinante. E bravissimo.
E infine loro, i cani: a decine, di tutte le razze e dimensioni (per le riprese ne è stata utilizzata un’ottantina). Attenti, furbi, obbedienti e, ovviamente, addestratissimi. Creature che, come dice Doug, “hanno un solo difetto: si fidano degli umani”.
Senza dimenticare la profonda verità contenuta nella frase che apre il film, dello scrittore e poeta francese Alphonse de Lamartine: “Dove c’è un infelice, Dio manda un cane”.