MILANO, mercoledì 10 maggio ► (di Patrizia Pedrazzini) – Un fotografo, una fotografia. Robert Doisneau, “Il bacio all’Hôtel de Ville”. È così. Anche se l’archivio del maestro francese (vissuto fra il 1912 e il 1994), e tuttora conservato nell’Atelier di Montrouge, periferia sud di Parigi, di negativi ne conta 450.000. Anche se ormai lo sanno tutti che i due innamorati della foto altro non erano che due giovani attori che lo stesso Doisneau aveva fatto posare un po’ dappertutto a Parigi, alla Madeleine, in Place de la Concorde, su un autobus diretto al Chȃtelet, per poi scegliere alla fine lo scatto davanti all’Hôtel de Ville.
Il servizio glielo aveva commissionato la rivista “Life”. Niente da fare: “Le Baiser” è un’icona. E ci mancherebbe.
Ma quante altre immagini che parlano di umanità e di dolcezza, di sensibilità e di rispetto, di modestia, delicatezza e umiltà, si possono ritrovare fra gli oltre 130 scatti, tutti rigorosamente in bianco e nero, esposti fino al prossimo 15 ottobre al Museo Diocesano di Milano? Praticamente tutte.
In questo senso la mostra è una sorta di ammaliante passeggiata attraverso i giardini della capitale, lungo la Senna, per le strade del centro, ma soprattutto delle periferie, all’interno dei fumosi bistrot. Una passeggiata lunga cinquant’anni (ma concentrata sui decenni Quaranta e Cinquanta), che riesce a immortalare l’eterno fascino di una Parigi che non tornerà mai più, ma che non smette di far innamorare. Le donne con i vestiti stretti in vita, gli uomini con l’immancabile basco nero calato in testa, l’occhio attento e severo delle portinaie, i bambini (tanti bambini) che giocano per terra, stanno insieme, vanno a scuola, gli innamorati che si abbracciano, gli animali.
La strada. Ed è lì, lungo quei marciapiedi polverosi, sugli acciottolati bagnati, nelle modeste botteghe, davanti alle giostrine ferme, che la Parigi del dopoguerra diventa poesia. E che si capisce come Doisneau sia considerato, con Henri Cartier-Bresson, uno dei padri della fotografia umanista francese, nonché del fotogiornalismo da strada.
Ecco allora il viso pensieroso e gli occhi bassi di “Mademoiselle Anita” (1951); lo sguardo dell’anziano che fissa la testa esangue di un vitello appesa al gancio di una macelleria in “L’innocent”, del 1949; o ancora il cagnolino curioso che solo si volge al fotografo mentre il padrone è intento a osservare il lavoro di un pittore (“Le fox terrier du pont des Arts”, 1953). E tante altre ancora, a decine. Ma in tutte la stessa sensibilità nei confronti di un contesto sociale modesto, tuttavia sempre “trattato” con una sorta di dignitosa leggerezza che, chissà come, sembra parlare di libertà.
I bambini, per esempio, che popolano e riempiono di vita le periferie diroccate e i terreni inutilizzati di quelle che diventeranno le banlieues, e che il fotografo segue nei loro giochi, trasformandoli in protagonisti dei suoi scatti fin dalla metà degli anni Trenta.
Oggi tante di queste foto non sarebbero più possibili (e ce ne sarebbe da dire, in proposito). Ma oggi la strada è diventata un territorio ostile alla fotografia. Il che non fa che conferire ancora più valore all’opera di Doisneau e alla sua testimonianza.
“Le meraviglie della vita quotidiana sono così eccitanti. Nessun regista può ricreare l’inaspettato che si trova nelle strade”.
“Robert Doisneau”, Milano, Museo Diocesano Carlo Maria Martini, piazza Sant’Eustorgio 3, fino al 15 ottobre 2023