Dopo 44 anni, al Filarmonico, l’indimenticabile (e irripetibile) “Orlando furioso” di Vivaldi. Sfrenato trionfo del Barocco

VERONA, lunedì 9 maggio ► (di Carla Maria Casanova) Sfido chiunque, anche il più agguerrito nella lettura dell’Ariosto, a venirne a capo. Intendo a capo del libretto scritto da Grazio Braccioli per “Orlando furiosodi Vivaldi, opera dal soggetto già molto frequentato da vari musicisti, che il Prete Rosso riprese da quella del Ristori, rappresentata nel 1713 a Dresda. Nel 1714 Vivaldi ne ritoccò la partitura qua e là, poi praticamente la riscrisse nel 1727, versione definitiva presentata in quell’anno a Venezia.
In questa versione, nel 1978 l’Orlando Furioso vivaldiano riapparve sulle scene per la prima volta in epoca contemporanea. Avvenne a Verona, Teatro Filarmonico. Io ero già molto viva e vi assistetti. Tengo a segnalarlo perché si trattò di uno spettacolo epocale, capolavoro assoluto sia per esecuzione musicale (Claudio Scimone dirigeva i Solisti Veneti, nel cast c’erano Marilyn Horne, protagonista, e una stupefacente Sandra Brown come Alcina) sia per messa in scena (una delle più magiche realizzazioni del già celebre Pier Luigi Pizzi).
Ora, a 44 anni di distanza, il Teatro Filarmonico ripropone il titolo, nella edizione critica di Federico Maria Sardelli, con un recente allestimento della Fenice di Venezia – coproduzione Festival della valle d’Itria – curato da Fabio Ceresa (regìa ripresa da Federico Bertolani), Massimo Checchetto (scene), Giuseppe Palella (costumi), Fabio Barettin (luci), Silvia Giordano (movimenti mimici).
Non si facciano paragoni con “quello” spettacolo. I capolavori assoluti sono irripetibili.
Questo Orlando furioso punta sul barocco più sfrenato, nella sua forma grandiosa, a tratti un tantino esagerata, alla Zeffirelli. L’impianto scenico parte dallo sfavillante regno di Alcina, con sala del trono collocata nell’alveo di una conchiglia dorata. L’imponente antro buio della montagna del secondo atto è la calotta del mondo, molto simile alla superficie lunare. La cifra sfarzosa della produzione sta comunque nell’appariscenza di costumi e acconciature: mantelli pomposi, colori sgargianti, elmi dorati, abiti trapunti di pietre preziose, brillanti e ricami, tiare sontuose, tutto un baluginio di ori, sottolineato da luci splendenti. Compaiono creature mitiche come il gigantesco ippogrifo piumato (peccato che non dispieghi le ali) in groppa al quale arriva Ruggiero. Le nozze tra Angelica e Medoro si compiono in un mistico tripudio da Parnaso nella reggia di Alcina (non è chiaro perché poi la prima notte si debba concludere in una amorosa, sia pur soft, ammucchiata). Comunque tutto bene.
Si diceva del libretto. I personaggi sono 7: 4 uomini e 3 donne, interpretati da sole donne (salvo Astolfo che è irrimediabilmente un basso). E fin qui. Tutta l’opera, fino al primo Ottocento (vedi Rossini) ci ha ampiamente abituati ad assistere a vicende amorose che si dipanano tra soprano e mezzosoprano o contralto (o, peggio, con uomini dalla voce femminile). Pazienza. Solo che in questo Orlando tutti si amano su linee incrociate e ognuno ama qualcuno di sbagliato, cambiando di continuo, per leggerezza, malinteso, o arti magiche, il soggetto amato. Domina questo guazzabuglio infernale la maga Alcina con i suoi filtri, come Puck della Notte di Mezza Estate e, come non bastasse, ci si mette pure lei, gelosissima, a innamorarsi di guerrieri non consenzienti. Orlando, che si vede sottratta di continuo l’amata Angelica, altro che furioso! Era da andare completamente fuori di testa. Come regolarmente avviene. Alla fine la ritrova, la ragione, ma oramai non interessa più a nessuno.
Io ho dei vuoti di memoria dei tempi scolastici, ma in Ariosto la cosa non mi era sembrata così complicata. Il librettista ferrarese Grazio Bracioli, gran collaboratore vivaldiano, ci deve aver lavorato non poco di fantasia.
Ma si sa, nell’opera (le cui storie sono quasi sempre improponibili) sostanziale è la musica e qui Vivaldi ha profuso nella partitura una straordinaria ricchezza strumentale (c’è un assolo del flauto di notevole virtuosismo). Inoltre, ai molti recitativi, alcuni di incontestata drammaticità, è contrapposto uno straordinario numero di arie (6 alla sola Alcina). Il ruolo di Alcina, insieme con quello di Orlando, è il punto forte dell’impianto musicale. Peraltro ogni personaggio è gratificato da almeno una aria importante. Le interpreti, tutte italiane di nota formazione belcantistica, alcune per la prima volta al Filarmonico, hanno affrontato con valore l’impegno non comune. Sono Teresa Iervolino (Orlando), Lucia Cirillo (Alcina), Francesca Aspromonte (Angelica), Chiara Tirotta (Bradamante), Sonia Prina (Ruggiero). Astolfo, parte minore ma, nella storia, occulto movente del tutto (è quello che conclude l’opera con il classico fervorino moralistico “saggio chi dal suo fallire prudenza impara”) è il basso cileno, Christian Senn, allievo della Accademia della Scala, dove si è già esibito in parecchie produzioni.
A capo dell’Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona sta Giulio Prandi, direttore, filologo musicale, matematico, tra l’altro direttore artistico e fondatore dell’Orchestra e Coro Ghislieri di Pavia. A lui, divulgatore instancabile, si devono alcune delle più importanti scoperte musicali degli ultimi decenni. Artista in residenza del Festival Oude Muziek di Utrecht dal 2019, vincitore del Premio della critica europea 2022 per l’incisione della Petite Messe Solennelle di Rossini, Giulio Prandi ha l’umiltà di considerare il suo lavoro “altissimo artigianato artistico”. E la ancora più grande umiltà di dichiararsi curioso di scoprire quali nuove idee i suoi colleghi porteranno in teatro nei prossimi quarant’anni nell’interpretare questo capolavoro vivaldiano. Ce ne fossero tanti, come Prandi.

Verona – Teatro Filarmonico- “Orlando furioso” di Antonio Vivaldi. Repliche: maggio 11 (ore 19), 13 (ore 20), 15 (ore 15,30). Lo spettacolo, tre atti e due intervalli, dura 3 ore e 10 minuti.