NOSTRO SERVIZIO – VENEZIA, venerdì 2 agosto ► (di Paolo A. Paganini) Dunque, avevamo appena visto, l’altra sera, nella suggestiva Sala d’Armi A dell’Arsenale, “Sembra ma non soffro”, con il flemmatico e sussurrante duo riminese, Roberto Scappin e Paola Vannoni, una pièce in punta di lingua di due affabulanti “fedeli” molto laici e per niente religiosi sui loro inginocchiatoi.
Ci era parsa originale.
Ora, abbiamo rivisto la logorroica coppia nelle vesti di due singolari cowboy, senza cavalli e senza pistole. Ma a teatro si fa presto a inventarli: pum, e via una scudisciata su una chiappa.
Eppoi, il loro stile, anche con questo “L’anarchico non è fotogenico”, non è cambiato, è evidentemente un marchio di fabbrica: parole sussurrate al microfonino sulla guancia in un incredibile repertorio di pseudo verità, luoghi comuni, e banali riflessioni, con l’aria di affrontare metafisiche elucubrazioni e chi sa quali sconcertanti rivelazioni. Soprattutto intorno e dentro il concetto della buona morte, coinvolgendo nell’argomento anche vecchi genitori cachetici e diarreici. Allegria.
Ma l’argomento si spalma su tutto, non risparmia niente e nessuno, soprattutto l’insopportabile paradigma di tanti noiosi rituali.
Insomma, devono morire il Natale, la ricerca scientifica sugli animali, la povertà, la carità, l’incapacità, i principi morali, le idee sbagliate, la Rai1 e le fiction di Rai2, l’idea di sacerdozio, e le suore, no, le suore no, perché aiutano a diventare atei.
Poi dovrebbero morire le linee progettuali del teatro. Ma evviva Rita Pavone e “La pappa di pomodoro”.
E poi: è bello infilare la mano sotto l’elastico delle mutandine. Meglio una mano lì, che un piede nella fossa!”
Ed ora ci vorrebbe un colpo di scena!
Ma devi smetterla di dire: la vita mi soffoca. Mi sembri una casalinga degli anni 60. Hai fatto lo struscio vaginale?, “Si dice striscio”. Ma sì, porco boia. Anche il boia deve morire. E poi: “Tutto finisce. Come la morte. E tutto è bene quel che finisce!”
Così per 50 minuti, ma potrebbero diventare ore. Già tanto non succede niente, è solo teatro di parola, pardon, di parole. Basta continuare a trovarle. Basta che siano quelle giuste per divertire l’inclita guarnigione. E via andare.
QUANDO SONO GLI OGGETTI A FARE I DISPETTI
Per cambiare, ecco di nuovo Manuela Infante. Dopo il suo “Estado vegetal” con Marcela Salinas, ora, al Piccolo Arsenale, è andato in scena “Realismo”, un’ambiziosa operazione drammaturgica con molta carne sul sacro fuoco. Non più un solo attore. Ora sono in scena Cristian Carvajal, Ariel Hermosilla, Hector Morales, Rodrigo Perez e Marcela Salinas.
In costumi ottocenteschi, sembra una classica compagnia goldoniana, più propensa al gioco dell’arte che al teatro borghese d’epoca. Tra scherzi lazzi e frizzi, inciampi domestici e qui-pro-quo, l’equipe attoriale ci dà dentro con gaudiosa felicità. Anche da parte del pubblico.
Eppure, l’impianto drammaturgico è più ambizioso di quanto appaia di primo acchito.
Narra la storia di una famiglia attraverso la successione delle generazioni, da 150 anni fa ad oggi. Si parla così delle grandi scoperte, delle esaltanti conquiste tecnologiche, come il motore a scoppio. E gli oggetti più pesanti dell’aria, eppure volano.
La famiglia in questione è rigida e benestante, con patriarcali valori di severi pater familias, con – inevitabili -figli goderecci. Qualcuno con qualche handicap. Succede. Poi la famiglia lentamente declina. Bisogna lavorare. Ma qui di voglia ce n’è poca. E così, l’uomo al centro dell’universo tecnologico, artifex di ogni benessere moderno, lentamente diventa schiavo delle cose, che, non più dominate, prendono il sopravvento sull’inettitudine degli uomini: sedie che dondolano, tappeti che vanno dove vogliono loro, luci che si accendono, pacchi che si librano nell’aria, tavoli e sedie che si scompongono e ricompongono come gli piace.
Insomma, per capirci, se in “Estado vegetal” erano le piante che prendevano il sopravvento sull’uomo, qui sono gli oggetti, in una serie ininterrotta di dispetti e di capricci, di cui gli uomini, poveri esseri indifesi, fanno le spese. E lo sviluppo drammaturgico, cominciato come commedia borghese, passando per il teatro dell’arte, ora diventa un irrefrenabile gioco di cose e marchingegni che si animano di vita propria. Dopo le piante, ora son le cose a tramare contro l’uomo. Ma tutto diventa, sulla scena, in un gaudente trionfo illusionistico, da Mago Silvan. Per un’ora e 55 minuti senza intervallo. E il pubblico sta al gioco in festosa e plaudente partecipazione. Anche se, tra “cose” e “stati vegetal”, guardando al futuro, c’è poco da ridere. Ma domani è un altro giorno.