MILANO, giovedì 5 marzo ●
(di Paolo A. Paganini) L’uomo è già il suo destino. Da subito. Da sempre. Ce l’ha scritto nei cromosomi dell’anima. Non c’entrano le stelle, il cielo, la fortuna. Uno se lo porta dentro, il proprio destino. E non c’è niente da fare, non si può opporre, non si può assecondare. È quello che è. E basta.
Credo che l’implosiva forza drammatica di Arthur Miller (1915-2005) e, in un certo senso, di Tennessee Williams, stia proprio qui, nel tormento dell’uomo di essere depositario e unico responsabile del proprio destino. Nei drammi di Miller, non c’è sviluppo drammaturgico, non può esserci, nel senso tradizionale della definizione, per il semplice fatto che i personaggi, coscienti o no, son da subito portatori del proprio destino. È come un’onda lunga, uno tsunami, che ancora non si vede, ma che sai che sta per arrivare. E, in questa tragedia del vivere umano, il proprio destino sarà sterile o indegno o nobile o esaltante o squallido o sopportabile o intollerabile o conflittuale o pacificante, a seconda della propria coscienza critica, del proprio senso di responsabilità, della propria dimensione etica, individuale o collettiva, cioè nella capacità di farsi consapevolezza del bene e del male, del giusto o dello sbagliato, con le inevitabili conseguenze che ne derivano.
Per esempio, in “Morte d’un commesso viaggiatore”, il capolavoro (1949) di Miller: al centro Willy Loman, tra orgoglio di padre e ostilità dei figli, tra sogni e delusioni, il destino è già segnato nel senso di responsabilità verso la famiglia. E la famiglia viene prima di tutto (viene detto anche in “Erano tutti miei figli”). La famiglia bisogna sempre salvarla. Fino a morirne, con un suicidio che la salverà dai debiti, grazie ai soldi dell’assicurazione.
E ancora in “Uno sguardo dal ponte” (1955): la vicenda di Eddie Carbone, scaricatore d’origine siciliana, in una storia di immigrati italiani clandestini. Il destino dell’uomo sarà segnato dall’amore per la nipote, che lo porterà alla gelosia, alla delazione, alla vergogna. Tragica fine nel sangue, marchio indelebile e inevitabile del proprio destino.
Ed ora il tormentato “Erano tutti miei figli” (1947), dramma moralistico su un caso di corruzione e speculazione di forniture belliche, che rivelò Miller come drammaturgo e che abbiamo visto al Teatro Carcano, in una platea gremita e silenziosa, come in un rito pasquale senza resurrezione.
È la storia d’un passato che ritorna e presenta il conto.
Lo speculatore senza scrupoli Joe Keller ha fatto i soldi con la guerra, costruendo teste di cilindro per l’aviazione americana. Ma una partita era difettosa. Joe Keller la fece spedire lo stesso. Venti aerei si schiantarono, venti giovani piloti morirono. Compreso, forse, uno dei suoi due figli. Ci fu un processo. Il socio di Joe Keller venne condannato. Lui mentì con una scusa meschina e si salvò. I soldi, la famiglia, il benessere, la ricchezza ebbero il sopravvento sulla voce della coscienza, sull’onestà, sulla giustizia. Non si può rinunciare al successo. Anche questo è il sogno americano, no? Sarà l’altro figlio, Chris, a far crollare ogni sogno, scoprendo la terribile verità. E la coscienza critica inchioderà infine lo spregiudicato Keller al senso di responsabilità… La fine? Il suicidio come remissione dei peccati…
Il dramma (per il quale lo stesso Miller scomodò il verismo, la natura moralistica, tormento e consapevolezza ibseniana) ha l’avvio morbidamente patinato e ozioso d’una serena domenica americana, tra vicini d’antica consuetudine amicale e vacui conversari. L’atmosfera d’ambiente diventa presto pesante e incombente. Kate, la moglie di Keller, vive torbidamente la follia di attendere ancora dopo tre anni il ritorno del figlio morto. Costringe a tutti questa penosa attesa (ma la verità, come si saprà alla fine, è più complessa). Anna Teresa Rossini ne scandisce tempi, drammi interiori, lacerazioni dell’anima con una forza di irresistibile e patetica bellezza. Brava. Mariano Rigillo è il marito, lo speculatore Joe Keller, buon padre di famiglia, tenero tollerante comprensivo, uno di noi, insomma, finché non se ne scoprirà il marcio. Protagonista assoluto. Convincente. Ruben Rigillo (figlio d’arte) è anche il figlio Chris sulla scena: un giovane di sicuro avvenire. Silvia Siravo (altra figlia d’arte) è la fidanzata Ann (figlia del socio condannato e ancora in prigione) che farà infine emergere la tragica verità: voce un po’ fragile ma di begli slanci drammatici. Giorgio Musumeci, nel ruolo del dimesso ma implacabile George, fratello di Ann, fa una parte minore ma significativamente interessante. Bene tutti gli altri, seppur in stridente contrasto con lo spessore drammatico dei ruoli principali. La regia di Giuseppe Dipasquale ha dovuto tener conto della verbosità del testo, e di più non avrebbe potuto fare lavorando su tempi ed entrate. Applausi finali per tutti.
“Erano tutti miei figli”, di Arthur Miller, con Mariano Rigillo e Anna Teresa Rossini. Regia Dipasquale. Al Teatro Carcano, Corso di Porta Romana 63, Milano. Repliche fino a domenica 15 marzo.
Tournée
17/22 marzo: Genova, Teatro della Corte;
25/29 marzo: Padova, Teatro Verdi.