Due assatanate scontrose acide perfide insopportabili primedonne. Un dramma minimo di quotidiana disperazione

DUE DONNE CHE BALLANO-Maria Paiato, Arianna ScommegnaphMarinaAlessiMILANO, 10 dicembre ► (di Paolo A. Paganini) Talvolta c’è solo una fiammella a tenerci legati alla vita, un filo, solo un filo esilissimo. Quando si spegne, quando si spezza, la recita finisce. Ma finché dura, la vita è un piccolo strenuo eroismo di sconosciuta sopravvivenza quotidiana. Per esempio, in “Umberto D”, capolavoro del neorealismo, canto del cigno di Vittorio De Sica, un vecchio professore in pensione, alla deriva della vita, rinuncia al suicidio per non lasciare solo il proprio cagnolino. Film crudele, senza cedimenti sentimentali, minimale. Come ogni dramma minimo di tutti i giorni, tra solitudine e indifferenza. Come in “Due donne che ballano” del drammaturgo spagnolo Josep Maria Benet I Jornet, uno dei massimi esponenti del teatro catalano contemporaneo.
In questo dramma, le due donne, che balleranno una sola estate della vita, come vedremo, sono una vecchia e una giovane badante. La vecchia è una testarda indisponente acida e scontrosa signora vedova, che vive sola, più abbandonata che sola, in un vecchio cadente appartamento. Ha due figli grandi, un maschio, che lei adora perché la fa ridere (solo al telefono, perché lui ha altro da fare), e una femmina, che vive la sua vita e non vuole rotture di scatole, soprattutto non vuole farsi carico di quella vecchia acida e difficile, e si sgrava la coscienza mandandole la badante un paio di giorni la settimana. La quale badante, a sua volta, è indisponente acida e scontrosa al pari della vecchia, con l’aggravante patologica della nevrosi.
Scintille.
A parte il carattere, cos’hanno ancora in comune? Scorbutiche e ipocondriache, sono entrambe sole e asociali. Odiano la realtà quotidiana. Entrambe sono state abbandonate dalla vita, la vecchia dal marito morto e dai figli indifferenti, la badante dal figlioletto di sei anni, morto accidentalmente dopo una spinta violenta del padre, che poi finisce in carcere.
Le due donne portano avanti il fardello delle loro pene nella scontrosa dignità del silenzio, nel riserbo delle loro anime, che a poco a poco, tra un litigio e l’altro, si svelano, fino a mettere a nudo il nervo scoperto della loro disperazione, delle loro verità.
E, allora, prima del suicidio finale, ballando fra loro in un abbraccio che finalmente le unisce, qual è il filo sottile, la tenue fiammella che le teneva in vita? Per la vecchia, una collezione di giornalini, alla quale mancava solo il 399; e per la badante il desiderio di quel figlio, che rivuole, che sente ancora suo, accanto a sé, che sempre le appartiene e che per sempre le apparterrà, e per il quale non accetta svaghi, distrazioni e interessi, per non essere distolta da quel pensiero fisso e lancinante. Tuttavia, in fondo, la badante è anche una tenerona. Riesce a procurare alla vecchia il desiderato 399. Ed è la felicità. Ma il filo che la teneva in vita si spezza. Ora quali altre ragioni di sopravvivenza le rimangono? Viene peraltro a sapere che gli adorati figli la manderanno in un ospizio…
Imboccata la strada della disperazione, Josep Maria Benet I Jornet non poteva altro che concludere la storia in tragedia. Quando la vita non offre più nulla non rimane che una sola conclusione. Almeno in teatro. E tuttavia l’Autore la attenua in un ultimo sberleffo alla vita: con lo stomaco riempito di barbiturici, le due donne, finalmente riconciliate con se stesse e tra di loro, ballano felici, insieme, la vecchia forse sognando un confortante mondo rosa di eroine e di principi azzurri, la badante l’abbraccio di quel figlioletto adorato…
Non ho mai gradito dilungarmi nelle trame. Questa eccezione m’è parsa doverosa soprattutto per un paio di motivi. Il primo è una meravigliosa mess’in scena (dovuta, con sensibilità e rigore, a Veronica Cruciani), al Teatro Carcano (che l’ha prodotta), con due irresistibili primedonne: Maria Paiato, vecchia scontrosa acida odiosa, in una stupenda lezione di magistrale recitazione; e Arianna Scommegna, duellante ad armi pari in perfidia e cattiveria: due mostri di bravura, in uno spettacolo di 1 ora e quaranta senza intervallo, che la platea segue ora col fiato sospeso ora in un liberatorio godimento negli scontri delle due assatanate.
Il secondo motivo è lo stato di salute del drammaturgo catalano, il quale, delle tante opere da lui scritte e per le quali ottenne i più lusinghieri riconoscimenti, forse è destinato a perdere memoria – speriamo il più tardi possibile – a causa della tragica malattia che ha recentemente rivelato: l’Alzheimer.
Una ragione in più, di stima partecipazione e solidarietà, per non perdere l’occasione di uno straordinario “Due donne che ballano”, in scena fino a domenica 20 dicembre.

Teatro Carcano – corso di Porta Romana, 63 – 20122 Milano
www.teatrocarcano.com