Due naufraghi della vita e un viaggio alla ricerca… di niente. In un film “sospeso” fra il caso e la solitudine del presente

(di Patrizia Pedrazzini) Lei si chiama Allegra, e soffre di attacchi di panico. Nel senso che ha paura di tutto. Di stare in mezzo alla gente e di stare sola, del silenzio e del rumore, di lasciarsi andare e di chiudersi in se stessa. Soprattutto ha paura di avere paura. Lui si chiama Benno, e non ha paura di niente. Anche perché solo una cosa conta per lui: la bottiglia. Vino, superalcolici, birra, mignon da collezione. Va bene tutto, purché di grado alcolico superiore a 5. Il mattino dopo, al risveglio, lo scenario è sempre quello: un letto sconosciuto, una macchina sfasciata, la branda di una guardina. Lei è una specie di blogger, lui una specie di giornalista. Lei ha una storia con un ragazzo attento e gentile. Lui è sposato con una donna premurosa e preoccupata che il marito accetti, visto che è sull’orlo della cirrosi, di entrare in una clinica per disintossicarsi.
Due esistenze che più diverse non si può, due naufraghi della vita che, tra l’altro, abitano nello stesso palazzo ma nemmeno si conoscono, ma che, un bel giorno, per puro caso, si incontrano. Partiranno insieme, di nascosto da tutti e senza un reale motivo, per un viaggio verso destinazioni e luoghi che nessuno conosce, sperduti, abbandonati, lontani, e che li porterà in pochi giorni dall’Italia all’Inghilterra, guarda caso proprio al paesello nel quale Benno (che è inglese) è nato. Su una Volkswagen azzurra nella quale fin da subito si accomoda il fedele cane di lui, il golden Maurice. E, fin qui, tutto bene.
Ancorché non nuovi né originali, i temi del disagio personale, del ricordo, della ricerca di sé, del viaggio, del ritorno alle origini, promettono, se non grandi rivoluzioni, quanto meno coinvolgimenti emotivi, approdi – reali o metaforici poco importa – a una svolta, o a un cambiamento, anche solo accennato, ma concreto, reale. Invece no. Non c’è niente di tutto questo in “Guida romantica a posti perduti”, recente lavoro della regista romana Giorgia Farina (“Amiche da morire”, “Ho ucciso Napoleone”). Non c’è uno sprazzo di futuro, men che meno di speranza, in una pellicola che appare, invece, totalmente dominata dal caso, dalla solitudine, dall’incapacità di occuparsi (e di pre-occuparsi) dell’altro, e prima ancora di sé.
Allegra e Benno viaggiano insieme, ma non si conoscono e non fanno niente per conoscersi. Per cui al massimo si accettano, o meglio accettano le relative incompiutezze, apparentemente con discrezione e rispetto, in realtà nel più totale disinteresse, dell’altro e di sé. E non cambia le carte in tavola il solo apparentemente liberatorio ballo finale sulle note di un rock che, come tutto il film, promette ma non mantiene. Che succederà ora? Cosa c’è dietro quell’abbraccio tenero e stanco: affetto o solitudine? Forse, molto più prosaicamente, niente. Solo l’accettazione del presente e della casualità. Mentre i “posti perduti” del titolo – un albergo vecchio e malconcio, una fabbrica dismessa (nel villaggio industriale di Crespi d’Adda), un parco giochi abbandonato e spettrale – che fanno da tappe al viaggio dei due, non sono, nella loro totale assenza di vita, che la proiezione del nulla che caratterizza le loro vite.
Un film, insomma, “sospeso”, come le esistenze dei due protagonisti. Cui danno corpo un’allibita Jasmine Trinca e, ancora di più e meglio, il volto sgualcito e l’occhio perso, ma mite, di un Clive Owen particolarmente calato nei panni di un uomo buono vittima di una dipendenza contro lo quale non sa, o non vuole, lottare.