Dunkirk, film di guerra anomalo, sofisticato e corale. Tutto al maschile. Con un montaggio strepitoso. Al meglio di Nolan

(di Marisa Marzelli) I film troppo esaltati dalla critica rischiano di deludere lo spettatore attento o almeno non disposto a lasciarsi impressionare e manipolare da consensi bulgari.
Ma non è il caso di Dunkirk. Il blasonato regista britannico Christopher Nolan (qui anche soggettista, sceneggiatore e coproduttore) è al suo meglio. Si ha l’impressione che abbia realizzato proprio ciò che aveva in mente, senza compromessi o interferenze del business. Ne sono una spia l’elenco dei Paesi produttori: Regno Unito, USA, Paesi Bassi, Francia (non quindi il classico blockbuster di una Major americana) e il tema scelto: l’evacuazione dei soldati inglesi sulle spiagge di Dunkerque all’inizio della seconda guerra mondiale (non una vittoria ma un momento critico per gli Alleati, prima della discesa in campo degli Stati Uniti). Perché Dunkirk è un film di guerra anomalo, dove i nemici tedeschi ci sono, e attaccano, ma non hanno mai un volto. Inoltre, è un film corale; paure, coincidenze, singoli atti di coraggio, benintenzionate manifestazioni di patriottismo o morti accidentali di presunti eroi per caso si mescolano senza una logica, una strategia di trionfalismo. Volendo, è un’astrazione del concetto di guerra, applicabile a situazioni di caos. Nemmeno le cause – chi ha ragione, chi ha torto – sono in discussione. Il singolo pensa e cerca di sopravvivere. E allora, vedendo questi uomini, quasi tutti giovanissimi, focalizzati con ogni forza sul desiderio di salire su un’imbarcazione pur di salvarsi, non si può non pensare a quel che succede oggi con i migranti. Ma questa è, semmai, una riflessione a posteriori.
Il film è il risultato più audace e sinora forse più convincente di tutta l’idea portante del cinema di Nolan: la percezione del tempo e come renderla in immagini. Troppo facile dire che in Dunkirk sono rispettate unità di tempo, di luogo e d’azione. È così, ma c’è dell’altro. Perché all’inizio, con una breve didascalia che spiega quando e cosa avvenne sulla spiaggia, si aggiunge una didascalia interpretativa: il plot riguardante le truppe in attesa di essere evacuate copre una settimana; quello delle imbarcazioni inglesi (molte di privati cittadini) partite dalla costa britannica per riportare a casa i soldati si svolge in un giorno; la battaglia tra aerei Spitfire e i velivoli nemici copre un’ora. Ma tutti e tre i filoni si mescolano e si esauriscono nella durata della pellicola (un’ora e 46 minuti). Perché la percezione della durata del tempo è diversa a seconda di essere bloccati sulla spiaggia, di navigare verso una meta, di dover affrontare il nemico in volo e tenere d’occhio l’esaurirsi del carburante. Perciò, a volte, una stessa sequenza è riproposta da diversi punti di vista.
Come spesso nei film di Nolan (da Memento a Inception, The Prestige, Interstellar, senza tralasciare la saga de Il cavaliere oscuro) non tutte le singole tessere del puzzle s’incastrano alla perfezione – anche perché piegare il tempo fisico nella percezione della mente e rendere il concetto visivamente non è proprio un gioco da ragazzi – ma qui diventa quasi un pregio, anziché un difetto, in quanto rende bene lo stato di febbricitante confusione dei vari campi di battaglia.
Aggiungiamo che Dunkirk è poco parlato; a immergere lo spettatore nell’atmosfera concitata, claustrofobica, tesa e sospesa sono l’uso funzionale dei rumori in rapporto alla musica e un montaggio strepitoso. Mentre gli effetti speciali sono ridotti all’indispensabile. In un film tutto al maschile, i volti noti (Kenneth Branagh, Cillian Murphy, Mark Rylance) si mescolano a quelli di sconosciuti altrettanto efficaci e molto ben scelti. Basti dire che un nome di spicco come Tom Hardy (l’aviatore) non si vede quasi mai in faccia, perché indossa cuffia e occhialoni.
Dunkirk è un’opera molto sofisticata stilisticamente, curata amorevolmente nei dettagli (come dovrebbe essere normale nel buon cinema, sebbene oggi sia diventata merce rara) e magicamente illuminata da un pathos costante e genuino, non di facciata, che lo rende facilmente apprezzabile anche da un pubblico di gusti più semplici ed immediati.