(di Marisa Marzelli) Struggente canto del cigno per il più amato dal pubblico tra gli X-Men di casa Marvel. Logan ha debuttato all’ultimo Festival di Berlino, incantando spettatori e critica. Perché è un film capace di superare lo steccato del genere cinecomic tratto dai fumetti e di volare libero nei territori che suscitano emozioni. Certo, è meglio se si conosce il personaggio di Logan (nome da supereroe: Wolverine), il mutante con gli artigli di adamantio e la capacità di rigenerare all’istante i tessuti del proprio corpo, cosa che lo rende(va) immortale. Ma anche, ipoteticamente, senza conoscere la storia alle spalle del supereroe questo film è la degna conclusione della sua epopea. Durata sullo schermo quasi vent’anni, con due altri spin-off dedicati a lui (X-Men – Le origini, del 2009 e Wolverine – L’immortale del 2013) e diversi in cui è presente nel gruppo. L’attore australiano Hugh Jackman, diventato famoso proprio grazie al personaggio, ha dichiarato che non vestirà più i panni di Logan-Wolverine. Anche se, mai dire mai: nei cinefumetti pure la morte è un concetto relativo.
Diretto da James Mangold, già alla guida del più tradizionale Wolverine – L’immortale, Logan è un cinefumetto anomalo. Lo si capisce già dalle prime scene. Non c’è la violenza fracassona e innocua di una trama debole, potenziata dagli effetti speciali; qui tutto è (quasi) umano, cupo e drammatico. Il film è maturo, ha un’anima, i caratteri sono psicologicamente ben disegnati, il discorso narrativo va in profondità.
Nel 2029 quasi tutti i mutanti si sono estinti. Logan, zoppicante nel fisico e nello spirito, stanco e incline al bere, tira avanti facendo l’autista di limousine per procurarsi medicine. L’adamantio inserito nel suo scheletro per potenziarlo lo sta lentamente avvelenando. Laggiù dalle parti del confine messicano, in un rudere di cisterna si nasconde, ormai novantenne, il professor Charles Xavier (Patrick Stewart, storico mentore degli X-Men dopo essere stato, in un altro tempo e in un’altra saga, il capitano Picard dell’astronave Enterprise di Star Trek). La sua brillantissima mente di telepata a volte vacilla, gli servono pillole per tenerla a bada. L’albino Calibano (Stephen Merchant) e Wolverine lo accudiscono come possono. Sono dei sopravvissuti ad un’epoca. Xavier e Logan sognano di fare abbastanza soldi per andare a vivere in barca sull’oceano. L’occasione si presenta quando una donna propone a Logan di aiutare una ragazzina a raggiungere il confine canadese per sfuggire a certi brutti ceffi che la vogliono morta. Lui rifiuta, ma poi scopre che la piccola (Dafne Keen, 12 anni e uno sguardo inquietante) è a sua volta una mutante, cresciuta in un centro di sperimentazione dove giovani con superpoteri venivano addestrati come macchine da guerra, ma in un secondo tempo dovevano essere eliminati. Dai governativi? da una multinazionale delle armi? Non ha importanza, in un mondo allo sfascio. Fatto sta che Logan carica in macchina professore e ragazzina e parte verso nord. Inseguito dai cattivi, con cui dovrà scontrarsi più volte, affrontando anche un suo clone, più giovane e potenziato.
Il film diventa un road-movie avventuroso e pericoloso durante il quale avviene un simbolico passaggio di consegne tra i vecchi mutanti e una nuova generazione di supereroi. Dato che nel frattempo si è formata un’asimmetrica simbolica famiglia composta da nonno, padre e figlia. Il passato, traghettato dal presente, deve lasciare spazio al futuro. Tutto qui, raccontato con un’energia rabbiosa e insieme malinconica. Ma anche con momenti ironici che umanizzano i personaggi.
Film stratificato, l’aggettivo più usato per definire Logan è crepuscolare. Come quella fetta di western che, dopo il periodo classico, individua la decadenza e possibile morte del genere ammantandole di epico, autunnale fulgore. E le citazioni in proposito non mancano, a partire da un clima teso e disperato alla Peckinpah, dove battersi diventa inevitabile anche se si è consapevoli che la conclusione sarà una sconfitta. Ma c’è anche un po’ di fantascienza post-apocalittica alla Mad Max: Fury Road di George Miller. Pure lì c’era una lunga fuga alla ricerca di un mondo migliore (altro rimando: Un mondo perfetto di Clint Eastwood, con il rapporto quasi genitoriale dell’eroe disilluso con chi vorrebbe poter chiamare figlio, se le cose fossero andate diversamente) che esiste solo nei desideri.
C’è anche un livello meta-fumettistico. Da una parte perché, nel film, Logan scopre che l’indirizzo della meta di salvezza dove vuole arrivare la bambina è preso proprio da un fumetto, non è reale. Quindi in partenza è inesistente. Dall’altra perché il declino del personaggio Logan è forse il declino stesso dei film di supereroi, condannati a rigenerarsi in qualche modo o sparire.