(di Piero Lotito) Si ha forse un particolare vantaggio nello studiare l’antico Egitto, le sue tombe, i suoi geroglifici, e, intanto, scrivere versi, fare poesia? Noi, d’impulso, diremmo di sì, perché se è vero che la poesia è, per sua natura, fuori dal tempo, è anche vero che affondare lo sguardo e la sensibilità a un remoto popolo che tanto amava la vita da organizzarne, per così dire, la prosecuzione dopo la morte, porta a una sicura dilatazione della conoscenza critica del valore dell’essere, fondamento unico – non è così? – dell’espressione poetica.
Ebbene, tutto questo capita a Giuliana Rigamonti, egittologa professionista con specializzazione in filologia, autrice con Marco Chioffi di numerose, importanti pubblicazioni di traduzione e interpretazione di stele e documenti letterari dell’Antico e Medio Regno, tra le quali Un dispaccio da Mirgissa, I racconti di re Keope (2005, Papiro Westcar), Màstabe, stele e iscrizioni rupestri egizie dell’Antico Regno (3 volumi, 2011, 2012, 2013, di cui il primo è risultato vincitore del Premio Internazionale Ada Negri 2012 per la sezione saggistica), Qubbet el-Hawa, la tomba rupestre di Ishemai (2014, La Mandragora).
Ma la Rigamonti, che vive a Sondrio, scrive anche poesia. E di quella buona. Dopo le numerose, e preziose, plaquette per le Edizioni Pulcinoelefante (fra le altre: Verde, 1988; Le finestre di Chiloè, 2000; Girandola di prua, 2002), le raccolte con prefazioni firmate da grandi nomi della critica e della stessa poesia: Carlo Bo, Giuliano Gramigna, Mario Luzi. In particolare, con La settima onda (2003, ES) vince il Premio San Domenichino. Per la collana di poesia di Scheiwiller, fino al 2004 diretta da Giovanni Raboni, pubblica nel 2006 L’acino della notte, cui va, tre anni più tardi, il Superpremio del Cinquantesimo San Domenichino, riservato ai vincitori delle ultime 25 edizioni. Ed ecco, buon ultima nei primi di quest’anno, Il ciliegio dei baci rossi, una raccolta di 80 poesie proposta da Giuliano Ladolfi Editore con prefazione di Laura Novati e postfazione di Francesca Bonazzoli.
Qui, senza entrare nel merito poetico per non rubare il mestiere ai critici di professione, ci preme appunto indagare su quel rapporto tra egittologia e poesia. Ci interessa capire se si realizza o no, in un poeta come Giuliana Rigamonti, quel “vantaggio” di frequentare il tempo degli Egizi e, insieme, il tempo dei vivi (o dei morti) di oggi. «Forse – scrive Francesca Bonazzoli – il fatto che Giuliana Rigamonti sia un’autorevole esperta di geroglifici ha qualcosa a che fare con la sua capacità di usare i simboli, di riuscire a parlare delle “dieci più due vite della pioggia” o “della danza lunga quanto il serpente della sete”. Di certo nelle poesie della Rigamonti si sente la relazione diretta che l’autrice intrattiene con la natura e con la capacità di interpretarla che aveva la poesia classica».
Anche Laura Novati sembra cogliere il “vantaggio” di una relazione tra indagine archeologica e indagine lirica, e ricorda quanto sia centrale, nella Rigamonti, «… la terra dell’aratro o Ta-meri, nell’antico Egizio: “Se io fossi un’acacia, è qui che vorrei / essere cresciuta, sopra la falesia del fiume / per sentire i cortei del tramonto”. Non occorre alcuna metamorfosi arborea per sentire questa terra come una nuova patria, a cui dedicare la pazienza infinita di mesi e anni di studio che conoscono però anche la gioia di “tornare sul campo”; per scoprire magari – come di fatto la Rigamonti egittologa ha fatto – una sua tomba. Esplorarla, entrare nelle viscere del passato significa allora scoprire in quel buio lo splendore nascosto di altri colori e figure, che narrano altre storie, altro tempo, l’antica sapienza del passaggio dall’ombra alla luce».
Ma a lei stessa, a Giuliana Rigamonti (“Quanti anni ho?” risponde a un nostro primo quesito. “Cinquemila. Da egittologa non potrei averne di meno”), rivolgiamo la fatale domanda.
Egittologia e poesia, un ardito abbinamento. Come lo vive, che cosa le viene nella vita quotidiana e, soprattutto, nel comporre versi?
«Facendo poesia e archeologia, sfoglio il tempo passato. Anche nella mia poesia, non soltanto il passato recente, ma il remoto: come fosse un presente allargato, permeabile col presente che comunemente si intende. Considero quindi il passato e il presente insieme, non c’è differenza».
Gli Egizi, un popolo vicino alla poesia?
«È descritto come amante della vita. Quando gli Egizi avevano risolto il problema dell’aldilà costruendo una tomba, si sentivano tranquilli. Amavano i bambini, le feste religiose. Producevano tante qualità di birra, di pane, di dolci. Era un popolo gioioso, che amava appunto la vita. “O voi che amate la vita e detestate la morte”: molte iscrizioni recitano così».
E il futuro? Lei, che ha questa familiarità col passato, che idea si è fatta del futuro?
«Ho fiducia nella vita, bisogna sempre vestirsi di ottimismo, senza guardare troppo in là. Ogni cosa capita al tempo giusto, solo al tempo giusto. Non possiamo accelerare o rallentare niente». Nel numero dello scorso febbraio di “Archeo”, Giuliana Rigamonti e Marco Chioffi raccontano come hanno ritrovato nei pressi di Assuan, una sontuosa tomba appartenuta al funzionario User e alla moglie moglie Tuyu, vissuti all’epoca del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.). Il sepolcro era stato appena devastato e impoverito dei suoi arredi dagli scavatori clandestini, una piaga sempre, ma oggi, nel disordine che affligge l’Egitto negli ultimi anni, ancora più minacciosa per la cultura di quel Paese e dell’intero mondo civile.
E dal regno delle ombre sbucò alla luce della poesia l’egittologa Giuliana Rigamonti
19 Aprile 2014 by