È di scena l’atomo. E i due scienziati che nel ’41 ne hanno permesso la fissione. O forse no. Al Piccolo anche l’autore

MILANO, martedì 4 aprile ► (di Paolo A. Paganini) Ho riletto quanto scrissi nell’ottobre 2001, sul Corriere del Ticino, dopo la prima di “Copenaghen” di Michael Frayn, al Piccolo Teatro Grassi. Mi si consenta – non per civetteria – la pubblicazione della vecchia recensione, perché non c’è da cambiare neanche una virgola (salvo alcuni finali aggiustamenti di cronaca, doverosi, ora, nella ripresa di “Copenaghen”, sempre al Grassi, dopo 17 anni).

Per l’omissione di un calcolo, tanto banale da sembrare assurdo, la Germania non arrivò per prima alla realizzazione della bomba atomica, e fu così che, anziché Hiroshima e Nagasaki, non venne rasa al suolo Londra, o Parigi, o Copenaghen. Sull’omissione di quel calcolo è stato costruito uno dei più avvincenti testi del cosiddetto teatro scientifico, tanto più stupefacente, se si pensa che è stato scritto da un insolito Michael Frayn, astuto facitore di commedie brillanti (vedasi Rumori fuori scena) e qui seriosamente impegnato in una specie di processo “socratico”, per fare emergere una verità soltanto supposta. Nella realtà, con Copenaghen (1998), Frayn costruisce un canovaccio su un fatto realmente avvenuto, cioè l’incontro, nella Danimarca occupata dai Nazisti, a Copenaghen, tra il professore danese di nascita ebrea, Niels Bohr (premio Nobel nel 1922 per la sua teoria della struttura atomica) e il suo ex allievo, il professore tedesco Werner Heisenberg (premio Nobel nel 1932 per il suo principio di “indeterminazione”, cioè l’impossibilità di determinare esattamente e contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella). Se dunque avvenne, come avvenne, l’incontro tra i due scienziati, quali sono stati i misteriosi motivi dell’incontro? Volle Heisenberg sondare Bohr, per carpire al maestro quei dati che ancora gli mancavano per la realizzazione della bomba? O fu solo l’omaggio d’un allievo al vecchio e riconosciuto maestro? Fu un orgoglioso atto di superbia, di voler dimostrare a quali vette scientifiche fosse ormai assurto? Fu il tentativo di ottenere dall’anziano professore una specie di salvacondotto morale a giustificazione delle sue ricerche sul micidiale ordigno? Oppure – questa è la più stupefacente tesi di Frayn – fu il desiderio di rassicurare moralmente Bohr, che cioè l’omissione di quel calcolo fu un atto da lui voluto, per non dare ai Nazisti il vantaggio sull’atomica? Tutte le ipotesi hanno una loro ragionevolezza e, anche se lo spettatore deve affrontare qualche difficoltà nel seguire i complessi ragionamenti dei due scienziati, il contraccolpo disquisitorio, in platea, è forte, avvincente, coinvolgente, quasi come un novello testo moderno del Galilei brechtiano. Grande merito, oltre all’abilità dialettica di Frayn, va ai formidabili interpreti di questo “giallo ideologico”: Massimo Popolizio, l’ex allievo, freddo, determinato e tuttavia fragile e ricco di umane sfumature emotive; Umberto Orsini, sornione, incisivo, iracondo quanto basta per far emergere l’uomo dallo scienziato; e Giuliana Lojodice, moglie di Bohr, non solo testimone, ma arbitro e giudicante, sempre presente, nella vibrata contrapposizione di un rigido e dignitoso buonsenso femminile a fronte dei due antagonisti scienziati, come due vecchi bambini nell’assurdo gioco della guerra. La regia di Mauro Avogadro è tesa e rispettosa, ché più non avrebbe potuto in questo alto rito di un dramma fatto solo di parola…

Oggi, dopo 17 anni, si è senz’altro spostata l’asse terrestre delle mode, delle ideologie, degli equilibri, dei gusti, delle culture.
Ma non è avvenuto a “Copenaghen” ciò che acadde a tanti testi teatrali, nobilitati e di garantita sopravvivenza, ma esiliati alla spicciolata nella categoria dei classici, come vecchi ricoverati in ospizio.
Nella sfida tra scienza e natura, tra matematica e poesia, tra fisica e filosofia e, in fondo, tra cuore e testa, ci sono testi che sfuggono a ogni dicotomia, e che sono, nello stesso tempo, scienza, fisica, poesia e filosofia. Così per questo Frayn, che suscita entusiasmo e commozione, davanti a una conoscenza scientifica, divenuta umana e comprensibile (o quasi).
Con gli stessi protagonisti di allora (qualche leggera modifica di durata: nel 2001 quasi due ore e 45 con un intervallo; oggi un’ora e 40 senza intervallo), consente oggi di fare un glorioso e non impietoso confronto con il tempo passato. Ora, nella nostra chiosa conclusiva, dobbiamo solo inchinarci alla prodigiosa recitazione di Popolizio, intenso e istrionico nella sua funambolica e sapiente magia interpretativa, che adesso è diventato ancor più ricco di gamme espressive, aggiungendo soprattutto un tocco di umanità, in una puntigliosa sfida con se stesso, combattuto, da una parte dalla presuntuosa certezza scientifica, dall’altra da una pudica MA straziante pietas per le sofferenze della guerra e lo stolido martirio delle nazioni.
Dell’eccellenza di Orsini e della Lojodice, ancora una volta un’entusiastica conferma.
Una particolare segnalazione d’ammirato consenso per la scena (Giacomo Andrico), per i suoni (Alessandro Saviozzi), per il video (Luca Brinchi e Daniele Spanò).
Alla fine, applausi esaltanti e commossi. Con colpo di scena: la presenza in sala dello stesso Michael Frayn. Un delirio di consensi. Si replica fino a domenica 22.