E dopo 150 anni Chailly rende giustizia alla Pulzella. Tutti contenti (o quasi). Osannati la Netrebko e Francesco Meli

7.12 collage giovanna d'arcoMILANO, martedì 8 dicembre ►(di Carla Maria Casanova) Più blindata di così. Ma, se il metaldetector ha funzionato, va bene (almeno psicologicamente).
L’inaugurazione della Scala con Giovanna d’Arco di Verdi è stata un gran successo. Undici minuti di applausi ininterrotti. Si potrebbe anche spedirla via così: è una bella opera, esecuzione musicale eccellente, scenicamente discutibile. Complessivamente piaciuta. Ma non tutti sarebbero soddisfatti, intendo di questa cronaca. Allora si ricomincia da zero. Appartenente agli anni verdiani giovanili, i maledetti “di galera”, “Giovanna d’Arco” è ben lontana dall’essere un titolo popolare. Alla Scala, dov’era andata in scena nel 1845 con 16 applaudite repliche (per allora un esito “lusinghiero”) ed era stata ripresa vent’anni dopo dalla bellissima Teresa Stolz (di nuovo 16 repliche), scomparve dal repertorio. Quindi erano 150 anni che alla Scala Giovanna d’Arco non compariva in cartellone.
Eppure è una bella opera, che più verdiana non si può. Purtroppo il libretto, di Solera, è bislacco e scellerato. Ma a quello nessuno fa più caso. Comunque Giovanna non muore sul rogo bensì a causa delle ferite in battaglia. Però, dopo che è arrivata la funesta notizia “Rotto è il nemico, ma Giovanna è spenta”, nel silenzio generale “represso gemito mandò l’estinta”. L’eroina si erge dalla bara e, davanti all’innamorato re Carlo VII e al cattivo padre redento (vedi Germont), canta ancora una bell’aria. Mah.
Nella edizione odierna il tutto viene vissuto da Giovanna come in film: lei sta nel suo letto, nelle braccia del padre che si è ravvisato sul conto di lei, e “assiste” alla battaglia nella quale cadrà. Poi, giacché da lì non si è mossa, le è facile risorgere e cantare il finale.
8.12 collage giovanna 2Nel melodramma non si va troppo per il sottile. Va bene tutto.
Solo che questa messinscena (registi Moshe Leiser e Patrice Caurier, scene Christian Fenouillat, costumi Agostino Cavalca, luci Christophe Forey tutti debuttanti alla Scala) con uso forsennato di proiezioni e lampi, mi è parsa terribilmente confusa. Quel genere di messinscena “psicologica”, che vuole spiegare un sacco di cose rimaste nelle pieghe e magari mai volute né pensate da nessuno se non dal regista. Personalmente, le aborro. Peccato che anche l’armonia cromatica dei costumi di massa sia emersa solo alla fine, quando i coristi sono comparsi tutti impalati, in riga, alla chiamata degli applausi. Nel gran tumulto di luci, ma soprattutto ombre, tanto valeva che (i costumi) fossero tutti neri.
Se invece parliamo di musica e interpretazione della stessa, altra storia. Darei subito onore al merito al baritono Devid Cecconi (perché non David, visto che è nato a Firenze?). Cecconi, classe 1971, gigantesca mole quasi pari al suo collega Ambrogio Maestri, ha dovuto inaspettatamente sostituire Carlos Alvarez nel ruolo di Giacomo. Bel timbro, voce sicura, e tutto un migliorare dall’inizio alla fine. Bravo bravo. Francesco Meli, 35 anni, lo sappiamo tenore svettante ma di grande garbo. Qui la sua regalità è resa evidente anche dalla patina dorata (corpo e armatura). La russa Anna Netrebko (1971) definita da Pereira “la più grande cantante oggi sulla piazza”, un po’ bambolona di aspetto, ha di certo una voce bella, intensa, compatta. È una Giovanna matura, muliebre, guerriera e ha sgominato con sicurezza tutte le insidie del ruolo. (Per favore lasciamo stare la Tebaldi e certo nulla c’è da spartire con la stilizzata inarrivabile purezza del canto della giovane Ricciarelli – Venezia, 1972).
A capo dell’orchestra era difficile fare meglio di quanto abbia saputo fare Riccardo Chailly, che ha dato dignità anche al nostro brutterello Inno nazionale.
Il coro, con la sua parte di assoluto rilievo, si è preso la meritata ovazione, insieme all’istruttore Bruno Casoni.
Infine, mi sento in dovere di citare l’ufficio stampa. Va bene che è il suo mestiere, direte giustamente, ma mai come quest’anno siamo stati gratificati da ogni genere di notizie e contro notizie. Ci sono stati serviti persino i “numeri” (che sempre mandano in sollucchero le redazioni della cronaca), vedi  55 kg di chiodi (della falegnameria) mentre quelli usati per la scenografia sono stati 28.000 (mi piacerebbe sapere quali sono di più); 23.900 viti; 250 kg di terre colorate, 20 kg di colla a caldo, 90 m di tubi alluminio… La ricostruzione della cattedrale di Reims dell’ultimo atto è alta 8 m.50. Poi, a tamburo battente, ecco una raffica di fotografie, non solo degli interpreti ma anche di tutte (o quasi) le personalità in teatro. Insomma, un servizio proprio con i fiocchi.
L’opera, 4 atti, è data in due tempi con un solo intervallo. È quindi di durata breve: 2 ore 45 minuti. A seconda dei punti di vista, è un bel vantaggio. Specie alla prima: inizio ore 18, permettendo ai 400 vip invitati alla cena di gala al Giardino di attavolarsi alle 21,30.