IO RESTO A CASA (insieme coi pensieri vagabondi). E, intanto, l’attore milanese Umberto Ceriani, sogna di riprendere il cammino, quando le costrizioni pandemiche lo consentiranno, per strade e stradine della vecchia Milano, che ancora resistono agli slanci verticali di una città che vuol competere con Dubai. E lo immaginiamo, Ceriani, quando non è a teatro, mentre cammina per le strade “deserte e silenziose”… Come in quella vecchia e malinconica canzone di Domenico Modugno…
(di Umberto Ceriani) Diciamo che, da buon sentimentale quale sono, mi piace camminare spesso e volentieri per le vecchie strade della mia Milano, che da qualche decennio si è tutta rivolta al modernismo, anche in fatto di architettura urbana. Tutto trascorre in fretta, quello che c’era ieri, oggi è sorpassato. Se penso alla goticheggiante Torre Velasca di piazza Missori o allo snello Pirellone di piazza Duca d’Aosta, due buoni esempi fra diversi altri edifici di 40/50 anni fa – anticipazione di una Milano che cominciava allora ad assaggiare il gigantismo -, oggi sono guardati alla stregua di buoni reperti di un’altra epoca.
E, in poco meno d’una decina d’anni, nell’area del Quartiere Isola, a un chilometro in linea d’aria dal balcone di casa mia, sono stati innalzati vari rampanti grattacieli, alti più della guglia della Madonnina, grattacieli la cui vocazione (e di chi li ha progettati) pare essere quella d’imparentare una parte della città di Milano alla Dubai dei satrapi mediorientali. E bisogna dire che quella parentela è abbastanza prossima.
Le mandrie dei turisti, stranieri e non, portati in giro turistico sui falsi autobus londinesi a due piani, s’incantano allocchite davanti a quei mastodonti, quasi come fanno davanti al Duomo, e smanettano sui telefonini per scattare fotografie a raffica, in preda ad un parossismo collettivo che ricorda quel succede nel film “Jurassic Park” all’incontro degli umani coi dinosauri reincarnati.
Ma per tornare alle vecchie strade, con cui avevo cominciato il discorso, certo bisogna sapere dove andarle a cercare, indispensabile unire l’affetto alle buone gambe: e le trovi le viuzze, mettendo in pratica quello spirito un po’ da rabdomante che giustifica la passeggiata. Io, di quella categoria, prediligo le vie che abbiano qualche tortuosità nel tracciato, qualche serpentina, tanto per interrompere i rettilinei tirati col righello.
Può succedere che d’un tratto lo spigolo grigio di un palazzo si protenda in avanti e allora la stradina, per non arrestarsi, deve fare talvolta un angolo largo e senza scossoni e altre volte un angolo a gomito, più brusco, col solo scopo di aggirare l’ostacolo imprevisto; oppure, altro caso, ecco che su di un lato si presenta un piccolo slargo, roba minima da sei metri per sei, occupato solitamente da una panchina di bianca pietra corrosa e da un alberello che sembra scommettere sulla propria sopravvivenza; uno slargo che si fa lambire docilmente dalla strada, la quale con una rapida virata prosegue poi senza danni il suo percorso.
Spesso al passante ignaro e fortunato capita, gettando lo sguardo attraverso i portoni di antichi palazzi che fiancheggiano la via, di godere la vista di minuscoli giardini interni, che sembrano smeraldi incastonati in un diadema; e sono belli e verdi e rigogliosi, a testimoniare l’amorevole cura di chi vi abita nell’accudirli, nel tenerli al meglio; come di certo è stato nei tempi andati, quando il giardino di città di una casa aristocratica era una specie di biglietto di presentazione del suo proprietario ai visitatori ospiti. A me piace inoltrarmi negli androni di ingressi bui che dànno sui minuscoli giardini; non più di cinque passi e m’imbatto nel cancello che blocca l’entrata, ma che lascia allo sguardo la libertà di godersi il piccolo spettacolo, come si trattasse di un palcoscenico illuminato a dovere da un datore delle luci che sappia il fatto suo. Quasi sempre, da una nera porticina laterale esce un uomo, in un cardigan grigiastro che ha visto tempi migliori e pantaloni troppo larghi.
“Desideraaa…?”.
È il portinaio cui nulla sfugge e sospetta di chiunque.
“Volevo solo dare un’occhiata” – “Ah, prego!” – “Si potrebbe entrare nel cortiletto?” – “No, ho ordini di non fare entrare nessuno” – “Ah, va bene, grazie lo stesso“.
A proposito di piccole strade milanesi, che si srotolano a serpentina, di una sono particolarmente invaghito: è la via Morone (nella foto), quella che unisce in un lampo, non più di una cinquantina di metri, la via Manzoni a piazzetta Belgioioso: e appunto quella stradina è sinuosa come una biscia del naviglio pavese. Ma non è solo per quello che mi piace. Quasi all’angolo con la via Manzoni c’era una libreria cui ero affezionato e abitudinario, ora chiusa, ahimè; poi c’è un bar; indi svolti a sinistra e imbocchi la via in questione. E subito, sulla destra, t’imbatti nell’Antica Barberia Colla, negozio storico premiato dal Comune, da più di un secolo luogo super-sciccoso per la cura di criniere virili della Milano-bene: lo definirei un luogo mentale, un simbolo. Fra molte altre di clienti che dànno lustro alla barberia c’è anche (!) una mia foto allorché, giovane giovane, mi feci tingere i capelli di biondo per una commedia TV ambientata in Svezia, “Premio Nobel” di autore dimenticato, laddove secondo il mio regista essere svedesi coincideva con la biondità: per fortuna i miei neri ricrebbero in fretta.
Ma ora non ho tempo di dare una spuntatina leggera al capello riottoso e canuto né tanto meno fare tinture. Devo proseguire il cammino per raggiungere in un batter d’ali quello che è il mio sogno di sempre. Lascio sulla sinistra due bar e un negozio di antiquariato e seguo la serpentina che ora gira a destra: conosco ogni pezzo di lastrico, potrei camminare a passo sicuro anche in piena cecità come Gassman in “Profumo di donna”. C’è ancora, sul lato destro, un negozio a due vetrine che espone vecchie annate del Corriere della Sera: non ci sono mai entrato, forse perché cinque metri più avanti c’è la calamita che mi attira. Un nero portone, largo ma piuttosto limitato in altezza, è generosamente spalancato: rallento il passo e vi getto lo sguardo: c’è una vetrata, guardando oltre la quale si vede anche qui un giardino in miniatura.
Proseguo ancora per poco e sbuco nella piazza Belgioioso: alla sinistra c’è il palazzo omonimo, casa avita dei conti dallo stesso nome; ogni volta rivedo nel ricordo il viso un po’ sparuto e arruffato del mio compagno del liceo Berchet, ma nessuno di noi dell’aula sapeva che fosse un aristocratico. Al piano terra del palazzo c’è un famoso e succulento ristorante dal titolo da pronunciare in dialetto lombardo: El Boeucc. Di fronte un altro palazzo, un po’ ridondante di stile rinascimentale, sede centrale di una banca. Ma è quello che c’è alle mie spalle che è l’oggetto del mio afflato amoroso: mi giro lentamente come se il mio sguardo fosse una cinepresa intenta in una “panoramica” spettacolare e al contempo in una “soggettiva” intima, degna di Ingmar Bergman.
Finalmente i miei occhi ora abbracciano la breve facciata di una casa a due piani con strette finestre e un piccolo poggiolo, tutta ricoperta da cotto rosso-arancione, creando con esso un’immagine suggestiva e indimenticabilmente caratteristica. È la casa di cui abbiamo intravisto il piccolo giardino interno. È un edificio della fine Settecento dove venne ad abitare, all’incirca attorno al 1830, un gentiluomo milanese che possedeva anche una villa in campagna, a Brusuglio in Brianza; un gentiluomo che già negli anni 20 aveva scritto un romanzo formidabile, un po’ alla maniera di Walter Scott di cui era ammiratore, ma che vent’anni dopo riscrisse daccapo in una purissima lingua italiana, cambiandone anche il titolo. Dopo qualche sbandamento di gioventù, quel gentiluomo era diventato molto pio, andava a messa nella vicina chiesa di San Fedele, era considerato un sommo scrittore cattolico, l’arcivescovo lo teneva in gran conto. Quella è la casa dove visse e poi morì in una camera da letto di sapore francescano, don Lisander detto alla milanese, il gigante della nostra letteratura: Alessandro Manzoni.
È la casa che nei miei vagabondaggi metropolitani sa regalarmi le emozioni più intense.
Milano, giovedì 23 aprile