MILANO, giovedì 5 febbraio ●
(di Paolo A. Paganini) I “Sei personaggi” sono del 1921. Pirandello morì ne 1936. In quei suoi ultimi quindici anni di vita, sarà mai tornato su alcune affermazioni della sua teoria teatrale da manuale per l’attore? I “Sei personaggi” sono in realtà, non solo una scardinante rivoluzione teatrale – dopo quella fatidica prima del ’21 il teatro non sarà più come prima – ma anche un trattato di “pedagogia” teatrale, uno studio sulla propedeutica dell’attore. Tra poetica e filosofia, tra verità e finzione, tra sembrare ed essere, Pirandello dibatte un argomento sul quale torneranno tanti studiosi di filologia teatrale e, soprattutto, dopo di lui, tanti registi, quando, più tardi, ne furono definite funzione, etica e libertà interpretativa, sostituendo quel “capocomico” o “direttore di compagnia”, che, prima dell’ufficializzazione della figura del regista, era soprattutto responsabile della fedeltà al testo e del rispetto dovuto all’autore.
D’altra parte, senza menarla troppo per le lunghe, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la mess’in scena, improvvisata anche da un giorno all’altro, con poche prove, e con molte scene madri, tra sapienti gigionismi, miagolanti birignao e slanci di retorica, con un sentimento espresso con la mano sul cuore o un’invettiva col pugno alzato, era tutta racchiusa e delegata al capocomico e al suggeritore in buca (spesse volte, in passato, vero intellettuale, garante a tutela dello spettacolo).
La parte imparata a memoria? Non ce n’era di bisogno. Era un di più da seguire a grandi linee.
Ricordo negli anni Quaranta le mess’in scena di compagnie di scavalcamontagne, come il Carro di Tespi, che da una piazza all’altra, da un giorno all’altro, smontava, che so, “La nemica” per rappresentare a spron battuto “La fiaccola sotto il moggio”. Bastava il suggeritore in buca.
Poi arrivò Strehler. E nacque il regista. Ma Strehler aveva un rispetto maniacale del testo, spaccava la virgola in due, per scoprire che cosa diavolo mai potesse nascondere sotto…
Ed eccoci alla teoria inziale proclamata da Pirandello, quando nei “Sei personaggi” faceva dire al Padre:
“… Un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre qualcuno. Mentre un uomo… un uomo così in genere, può non esser nessuno… Se la sua realtà può cangiare dall’oggi al domani… la nostra no, signore… non cangia, non può cangiare, né esser altra, mai, perché già fissata – così – per sempre realtà immutabile…”
Poi, dicemmo, è arrivata la dittatura dei Registi, e addio immutabilità del personaggio inventato dall’autore. Essi han voluto spesso competere con la creatività dell’Autore, non solo con Pirandello, con tutti gli Autori, da Molière a Pirandello, da Goldoni a Shakespeare, reinventando a piacimento caratteri natura comportamento dei personaggi inventati, il loro essere insomma eterno ed immutabile.
Ed ora, dopo questo lungo preambolo, veniamo ai pirandelliani “Sei personaggi in cerca d’autore”, visti al Puccini, nell’allestimento di Gabriele Lavia, protagonista insieme ad altri venti attori. Una serata che segna, dopo tanti Pirandelli, l’assoluto trionfo dell’Autore, senza giochi di prestigio registici, senza cervellotiche diviazioni, senza colpi di mano e rivoluzionarie prese di potere. C’è la totale esaltazione di chi l’ha scritto, note e didascalie comprese.
L’avvenimento – per inciso – ripercorre nella memoria un altro storico allestimento inizio anni Novanta al Lirico di Milano, regia di Mario Missiroli, con un imperiale staff d’attori, da Gianrico Tedeschi (il Capocomico) a Marianella Laszlo (la Madre) e, soprattutto, con un indimenticabile Lavia, già allora nel ruolo dello sventurato Padre. Al suo fianco, nelle vesti della sciagurata Figliastra, aveva Monica Guerritore, sua moglie nella vita, e madre della loro figliola Lucia, la quale, discesa da tali lombi, ora è in scena con papà Lavia, interpretando la Figliastra.
Meno inamidato e accademico di quello di Missiroli, questo allestimento di Lavia ha un che di dimesso, che sottolinea il dramma dei disgraziati Personaggi, raminghi alla ricerca di chi li ha prima creati e poi rinnegati. La massa attoriale orchestrata in scena è grosso modo distribuita in due virtuali sezioni recitative: il gruppo di attori sul palco in attesa di provare “Il giuoco delle parti”, di un certo Pirandello, e il secondo gruppo dei Sei Personaggi, che arrivano per reclamare, su quel palco, il loro diritto alla vita teatrale. Questi reciteranno con il realismo sofferto di chi porta in sé un dramma di vergogne e di penosi lutti; quelli con l’espressività gigionesca e fatua degli attori di maniera.
L’unica trasgressione al dolente realismo dei Personaggi è la Figliastra (Lucia Lavia), che si discosta da tante interpretazioni del passato per un eccesso di toni lupeschi, tra una vindice vergogna e un’incontrollata isteria. Ma anche qui ha ragione Lavia, là dove il testo recita: “Bisogna che lei si contenga, signorina… può anche fare una cattiva inpressione tutta codesta furia dilaniatrice, codesto disgusto esasperato…” (il Capocomico). E ancora: “… Codeste tue troppe insistenze… le tue troppe incontinenze”… (il Padre).
In due tempi, di un’ora e mezzo ciascuno, lo spettacolo, per questo alto, onesto e amorevole recupero di fedeltà filologica, si colloca meritatamente fra i grandi allestimenti di questa stagione.
Detto questo, includiamo nell’elogio tutti i componenti della fitta compagnia, alla fine applauditissima, con grida ed esclamazioni di calorosa partecipazione.
“Sei personaggi in cerca d’autore”, di Luigi Pirandello. Regia di Gabriele Lavia – Interpreti lo stesso Lavia, la figlia Lucia ed altri venti attori – Al Teatro Elfo Puccini – Repliche fino a domenica 15.