MILANO, mercoledì 10 gennaio ► (di Paolo A. Paganini) Il romanzo “Sorelle Materassi” (1934), di Aldo Palazzeschi, segna un punto importante nella narrativa italiana del Novecento, soprattutto per lo specchiato carattere dell’autore, in difficile conciliazione tra ansia d’un lirismo assoluto e aderenza alla realtà. Ma il neorealismo – anche in letteratura – dopo Moravia e Alvaro, si stava imponendo. Gli slanci ottimistici del fascismo erano contraddetti dalla triste realtà del paese, lacerato da squilibri economici, sociali e culturali, che spingevano sempre più gli scirittori ad allontanarsi dalle acquietanti esercitazioni di stile per riprodurre il più possibile la realtà, da Pavese a Brancati, con “Sorelle Materassi” Palazzeschi s’inserì autorevolmente in queste antitetiche posizioni, tra idealismo e verità. Intanto, nell’imminente tragedia della guerra, quando non c’era più spazio per l’ottimismo, ma si doveva fare i conti con morte, fame e distruzioni, si faceva definitivamente strada il neorealismo, come cronaca nuda e brutale dei fatti della vita. Pratolini, Moravia, Levi, e poi Pavese e Vittorini. Eccetera.
Tuttavia, Palazzeschi è ancora incerto tra una dolente visione della vita e un’ironia critica, che, talvolta, cede al buffonesco, come via di fuga di fronte all’angoscia del vivere quotidiano.
Ecco dunque le Sorelle Materassi. Il romanzo poggia su “un tema ricorrente del Palazzeschi narratore: coloro che vivono ai margini cercano nel contatto con i vincitori la loro parte di vita. La conclusione è sempre l’abbandono, ma con la gioia di non aver perduto del tutto l’esistenza…” (dal Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi, 2005).
Qui ci sono due sorelle, Teresa e Carolina, facoltose ricamatrici di biancheria finissima, che lavorano per la ricca borghesia di Firenze. Vive con loro un’altra sorella, Giselda, voce della coscienza e del buonsenso, tornata a vivere con le sorelle dopo un infelice matrimonio, ora tollerata più come serva che come padrona. La metodica e laboriosa monotonia delle due sorelle viene intanto sconvolta da un giovane nipote, cinico e bello, seduttivamente avido ed egoista. Le due sorelle ormai avvizzite non hanno occhi, cuore e mente che per lui. Senza avvedersi che il fatuo giovanotto, un po’ alla volta, per soddisfare i propri crescenti capricci, le sta conducendo in un abisso di cambiali, di debiti, di miseria. Fino all’indigenza. Ma sempre storditamente felici di aver sacrificato la loro vita alla felicità del nipote. Anche quando vengono definitivamente abbandonate. Ma “con la gioia di non aver perduto del tutto l’esistenza”…
Il romanzo non segue il filo d’un racconto vero e proprio. Percorre gli impervi stati d’animo dell’amore che fa male, come spesso avviene, e gli angosciosi spezzoni psicologici dei personaggi, che amano e non capiscono, che subiscono e non si avvedono di prepotenze e ingiustizie. Per amore, appunto. O per stupidità. Entrambi, purtroppo, fanno parte del nostro intimo bagaglio di conoscenze.
Ora, è in teatro, al Franco Parenti (un’ora e trenta senza intervallo), nella superba interpretazione di Lucia Poli (Teresa), Milena Vukotic (Carolina) e Marilù Prati (Giselda), regia di Geppy Gleijeses. Lo sforzo drammaturgico è stato soprattutto di dare continuità al racconto. Ma il romanzo vi si presta egregiamente.
È sempre stato così, anche in passato: un film del ’43 con Emma e Irma Gramatica, Massimo Serato e Paola Borboni; uno sceneggiato televisivo del ’72, in tre puntate (supervisione dello stesso Palazzeschi, due anni prima della sua scomparsa), con Sarah Ferrati, Rina Morelli, Nora Ricci, Giuseppe Pambieri e Ave Ninchi; e a teatro (1988), in discutibile libertà linguistica, da Rosalia Maggio a Annamaria Ackermann, Isabella Salvato e Sebastiano Somma. Tutte impostate sul tentativo di percorrere convincenti tempi narrativi. Come ora Geppy Gleijeses, il quale sa tuttavia cogliere, con suggestivo realismo, le trame che via via si spezzano nella frantumazione psicologica di un disagio che passa attraverso il dramma del cieco amore delle zie zitelle: non hanno mai conosciuto né uomini né figli, ma ora vivono un’eterna illusione. Che chiamiano amore. E ch’è solo dolore.
Le tre “sorelle”, Poli-Vucotic-Prati, reggono, con una poesia tenera e dolorosa, tutto lo spettacolo. Al loro fianco: Gabriele Anagni, Sandra Garuglieri, e Luca Mandarini e Roberta Lucca. Tutti calorosamente applauditi. Si replica fino a domenica 21 gennaio.
E lo chiamano amore. Anche quando passa attraverso prepotenze e ingiustizie. Come nelle “Sorelle Materassi”
10 Gennaio 2018 by