Ecco dunque che cosa Cesare Garboli (“suggeritore” di regie) intendeva per “traduzione”: analisi dettagliata del sottotesto

4-10-16-cop-garboli(di Andrea Bisicchia) Con tutta l’ammirazione per Cesare Garboli, maestro di critica, oltre che straordinario “regista” di Molière per le profonde indicazioni che dava agli attori nei suoi saggi di presentazione, molto seguiti da attori come Carlo Cecchi, Romolo Valli, Franco Parenti, per i 45 scritti raccolti in volume da Adelphi: “La gioia della partita”, debbo sottolineare il prezioso lavoro svolto dai curatori Laura Desideri e Domenico Scarpa, che, grazie alle Note al testo e alla Postfazione, rendono la lettura molto più agevole: Le scelte ci permettono di seguire un percorso critico che va dagli anni cinquanta al 1977, che si rivela anche un percorso di maturazione che, nel tempo, si è trasformato in Metodo. Il primo intervento è su Cesare Pavese, dopo il suicidio, del quale Garboli ricerca la storia segreta, quella che va dagli anni di “Solaria” e della vocazione poetica agli anni della narrativa, ricercando in essi il vero motivo di quel gesto drammatico che lasciò attonita l’Italia.
Fondamentale, per il periodo in cui fu scritto, è il saggio su “Poesia e decadenza”, dove, attraverso un excursus su poeti di fine Ottocento, come Baudelaire, Poe, Gerard de Narval, individua, nel rapporto Arte-Vita, una molteplicità di elementi simbolici e nichilisti arricchiti da innesti che spaziavano all’interno delle poetiche di fine secolo.
Ciò che caratterizza il Metodo Garboli è la sua maniera di riflettere e intervenire sull’argomento che affronta, come accade, per esempio, nel saggio “Introduzione a Dante”, maniera che spesso trasforma in polemica, come quella riguardante Elsa Morante, scrittrice che egli ritiene estranea a qualsiasi tradizione consacrata del Novecento, che, dopo il successo di “ La Storia” (un milione di copie vendute in un mese) fu oggetto di critiche negative, che Garboli attribuì a goffi tentativi di linciaggio da una parte dell’intellighentia italiana, invidiosa del successo di un romanzo che, a suo avviso, non aveva eguali e che, anziché essere accettato, fu causa di irritazione e di dileggio. Al contrario, per Garboli, bisognava fare i conti con “La Storia” e con “lo scandalo della sua poesia”.
Le irritazioni erano più visibili quando si discuteva di traduzioni, per esempio quelle di Pinter e di Molière, ma la sua polemica era sempre sottile e sempre sorretta da ampie dimostrazioni. Accade per “Terra di nessuno” di Pinter, che riteneva un autore impossibile da tradurre e da far parlare in italiano, accade per Benjamin, con cui non si trovava d’accordo su quale debba essere il ruolo dell’arte nella società di massa, sottoposta alla mercificazione e alla riproducibilità, a cui Garboli contrappose l’unicità, dato che, secondo lui, la riproduzione dileguava “l’aura”, la sacralità e il mistero della creazione. Accade persino col suo maestro, Natalino Sapegno, la cui traduzione dell’”Avaro” la riteneva priva di analisi critica, oltre che di convinzione, forse perché considerava il testo meno bello dell’”Aulularia”.
Leggendo l’ultimo saggio: “In casa di Harpagon”, si capisce cosa intendesse Garboli per traduzione, ovvero analisi dettagliata del sottotesto, di cui egli stesso dava tali indicazioni di lettura da far invidia a qualsiasi regista, specie se fatte da un “allievo infedele”, come amava definirsi…

Cesare Garboli “La gioia della partita”, Adelphi 2016, pp 330, € 30