Ecco il King Arthur di Ritchie, storia di un cattivo ragazzo che diventa re. In un Medioevo fantasy. Quasi da supereroi

(di Patrizia Pedrazzini) Facciamo così. Dimentichiamo il nobile, epico, wagneriano “Excalibur” di John Boorman, che non sarà stato un film perfetto, ma che rimane, a tutt’oggi, la più eroica e struggente trasposizione cinematografica del mito di Re Artù. E dimentichiamo anche l’ingiustamente bistrattato “King Arthur” di Antoine Fuqua, cui va riconosciuto il coraggio di aver accantonato la leggenda per tentare il recupero della vera figura di Artù e del periodo storico nel quale visse. Dimentichiamo “Il primo cavaliere” di Zucker e “Camelot” di Logan, “I cavalieri della Tavola Rotonda” di Thorpe e “Lancillotto e Ginevra” di Bresson. Anzi, tanto che ci siamo, dimentichiamo per un momento anche il ciclo bretone, e limitiamoci a questo “King Arthur – Il potere della spada”, ultimo lavoro (dopo i due “Sherlock Holmes” del 2009 e del 2011 interpretati da Robert Downey Jr e Jude Law), del quarantottenne regista britannico Guy Ritchie.
Perché il confronto sarebbe, o impari, o fuori luogo. Quando invece questo fantasy concitato e adrenalinico, stracolmo di effetti speciali, sorretto da musiche incalzanti e all’apparenza disordinate, con più di un palese richiamo al “Signore degli Anelli” e al “Trono di Spade” (del quale peraltro ritroviamo due interpreti: Aidan Gillen e Michael McElhatton), e più di una strizzata d’occhio ai supereroi della Marvel, è quanto meno forte di due buone intuizioni. Non del tutto originali, magari, ma ben confezionate. La scelta di ambientare l’infanzia e la giovinezza di Artù nei bassifondi della Londinium romana, fra bordelli, vicoli violenti, furti, omicidi e sopraffazione, facendo del futuro re una sorta di antieroe cui solo l’incontro con la spada riuscirà a rivelare l’animo nobile a lungo sopito. Ed Excalibur, che qui per la prima volta esprime ed emana tutta la sua magia e il suo potere, vera, ineludibile protagonista dell’intera storia.
Quanto alla trama, è presto detta. Ritrovato e cresciuto da alcune prostitute senza conoscere nulla delle proprie origini, Artù (Charlie Hunnam) è costretto a fare i conti con la realtà quando estrae Excalibur dalla roccia. Inizialmente si sottrae, ma la spada, e una giovane maga (Astrid Bergès-Frisbey), lo convinceranno del destino che lo attende. Costringendolo a guardare dentro di sé, a prendere in mano la propria vita e a decidere quindi di lottare contro il perfido Vortigern (Jude Law), lo zio che gli ha ucciso la madre e il padre, il buon re Uther Pendragon (Erica Bana). All’insegna del mito riveduto e corretto, dove Mordred non è il figlio di Artù, ma uno stregone malvagio, e di Merlino non appare neanche l’ombra. Niente Ginevra (che in realtà però, si intuisce, è la maga), niente Lancillotto, niente Graal. In compenso un soldato di guardia a Excalibur è interpretato da David Beckham.
Dopodiché, sotto il profilo della regia, il film è l’ideale, e ancora più marcata, prosecuzione dello stile del quale Ritchie aveva già abbondantemente dato prova nei due “Sherlock Holmes”: spezzato e frenetico, con sovrapposizioni spazio-temporali, inquadrature bloccate, accelerazioni e rallenty, dialoghi concitati all’insegna del veloce botta e risposta, battute, ironia. Anche fuori luogo. Come il cinese (sì, c’è anche un cinese) cui i compagni si rivolgono chiamandolo Kung Fu George, o lo stesso “Art”, per gli amici Boss.
Il tutto calato in una concezione puramente spettacolare dell’azione, all’interno della quale il bad boy Arthur, capelli biondi e fisico da lottatore, e la sua eterogenea “banda” di futuri cavalieri della Tavola Rotonda (la si vede in costruzione alla fine) si muovono veloci fra elefanti più grandi di un campo di calcio e serpenti delle dimensioni di un treno della metropolitana. Mentre Camelot sotto assedio fa molto Peter Jackson.
Per stessa ammissione di Ritchie, l’idea era quella di confezionare una storia più vicina ai giovani e al loro mondo. Ed è indubbio che il film trasudi grinta e modernità. Ma, di contro, perde in fascino e suggestione. Anche il momento nel quale la spada viene librata nell’aria prima di cadere nelle acque del lago, chiaramente ispirato all’analoga, memorabile scena di “Excalibur”, è lontano anni luce dal trasmettere le stesse emozioni.
In compenso tutte di grande impatto le musiche, a cominciare da “Lament” di Light of Aidan, che introduce le scene iniziali. Già servendo, fin dai primi minuti, un assaggio dell’atmosfera fantastica ed esagerata del film.