MILANO, venerdì 29 gennaio ► (di Paolo A. Paganini) C’è chi toglie gli articoli e c’è chi li aggiunge. Recentemente, Carmelo Rifici ha tolto l’articolo a “Il gabbiano” di Cechov, facendo intendere che tutto è “gabbiano”, estendendolo come categoria metafisica. Andrée Ruth Shammah, meno innocentemente, probabilmente con una punta di non sprecata malizia, ha aggiunto un articolo indeterminativo a “Casa di bambola”, di Ibsen, sottintendendo, con “UNA casa di bambola”, che si tratta di una, una qualsiasi, fra le tante case di bambola d’ogni tempo e paese. In verità, anche il titolo originale danese porta l’articolo (“Et dukkehjem”), e così anche l’inglese, “A Doll’s House”. (Ma dalla prima di Eleonora Duse del 1891 ad oggi, è sempre stata senza articolo). La Shammah non ha dunque sbagliato ad assegnare un significato ampio e indeterminato, meno emblematico e generalizzato (anche considerando le tante scemette che hanno bamboleggiato, e bamboleggiano, nei mille gusci protettivi di mariti ricchi o di amanti potenti).
Chiuso il discorso grammaticale, passiamo al testo, ch’è ormai stra-conosciuto. Il che ci dispensa da fastidiosi compitini riassuntivi. Questo scardinante capolavoro di Ibsen, che è del 1879, ma se non lo specifichiamo fa lo stesso, vista l’universalità dell’argomento, è di per sé un Manifesto del femminismo, dei diritti femminili, della dolorosa emancipazione della donna come persona. È un assioma, non ha bisogno di dimostrazioni. Libertà, dignità, rispetto sono da declinare sia al maschile sia al femminile. E, comunque, Nora, la bambola della casa di Ibsen, ne è il portabandiera, simbolo d’una faticosa conquista, in una battaglia – comunque perdente – contro i pregiudizi, l’orgoglio e la superiorità di genere maschile. Prima come sottomissione al padre, poi come prezioso gingillo nella casa del marito. Al risveglio finale, Nora dovrà andarsene. Abbandonare casa, marito e figli. Per un riscatto morale. E per rispetto a se stessa.
Chiuso anche il discorso social-filosofico.
Passiamo alla mess’in scena di “Una casa di bambola”, che la Shammah ha ora presentato al Teatro Franco Parenti. Quasi tre ore di spettacolo con un intervallo (due tempi di un’ora e venticinque e di un’ora e cinque). La regista, ormai di una maturità adamantina, può solo fare scelte coraggiose. E rischiose. Ma Andrée ama le scommesse. Qui ha giocato grosso. Ha rischiato di sfilacciare l’implacabile paradigma di Ibsen (maschio e femmina, l’un contro l’altra armati) in un estetismo che sfiora il calligrafismo, nel gioco (appunto calligrafico) del chiaro-scuro. L’assunto ibseniano è chiaro. Diventa scuro quando lo si affronta sul piano dei sentimenti reali. Ma Ibsen ha mai parlato di veri sentimenti?
Ibsen ha sempre preferito il lato oscuro dell’anima.
Anche in “Una casa di bambola” tutti i personaggi sono anaffettivi, in possesso semmai di sentimenti negativi. È anaffettivo il marito di Nora, il molto distinto avvocato Helmer, appena nominato direttore di banca, che considera e tratta sua moglie come una bambola, come una bambina viziata e irresponsabile. È anaffettivo il disperato Krogstag, impiegato di banca, licenziato da Helmer, che in un abisso di angoscia diventa ricattatore, facendo pesare a Nora un ingente prestito di anni prima, che la donna aveva contratto per aiutare il marito malato e ignaro (dando per giunta come garanzia un documento con la firma falsa del padre). Capace d’un vero sentimento è forse il povero dott. Rank, amico di famiglia, che ama da sempre in silenzio Nora (e, quando si dichiara, rovina tutto perché è troppo tardi, perché Nora è ormai in preda a una folle disperazione per l’incombente catastrofe coniugale che si sta abbattendo; e perché lui è un malato all’ultimo stadio d’una terribile malattia ereditaria).
Hemer, Krogstag, Rank: tre anime di un unico uomo perdente, che la Shammah, con audace intelligenza, fa interpretare a un unico attore, Filippo Timi, eclettico mattatore dello spettacolo nel fregolismo delle tre parti, una specie di Brachetti dentro e fuori dai personaggi, con sapiente rispetto dei caratteri.
Bene da una parte (come valorizzazione dell’attore), meno bene dall’altra, perché toglie suspense alla tensione morale e drammaturgica. Per esempio, se Nora è insieme con il disperato ricattatore Krogstag sappiamo che non potrà mai essere sorpresa dal marito, per il semplice fatto che… è già lì, nei panni di Krogstag. E così in tutte le altre situazioni. O c’è l’uno o c’è l’altro. Non ci si scappa.
E, procedendo, è anaffettiva anche l’amica d’infanzia Linde (Mariella Valentini, magnifica presenza scenica), vedova non inconsolabile, che prima aveva sposato per interesse e necessità un marito ricco,e ora è lì da Nora per farsi assumere nella banca del marito (e alla fine riallaccia il rapporto con l’antico amore, Krogstag, con la scusa che due naufraghi della vita possono forse salvarsi aggrappandosi insieme a un unico relitto di speranza).
In tutta questa ridda di amori malati, di sentimenti equivoci, di sottili e tragiche ipocrisie, di perbenistici moralismi, che la Shammah ha ben colto, Nora non può che essere sopraffatta. Ma l’andarsene, nella nostra ottica, sa più da fuga che da redenzione. Ma tant’è. Prendiamola come volontà di riscatto.
Marina Rocco ha un limpido e convincente temperamento drammatico. In un climax di crescenti e sconvolgenti sentimenti, passa dallo stato di immatura bambola domestica a un sempre più chiaro svelamento di quanto siano stati sventati i suoi passati errori, per imprudenza, per immaturità, per salvare il marito malato. Ma l’unico peccato è stato quello di non averlo mai rivelato al marito. Lo farà ora, costretta dal ricatto, ma sicura della solidarietà del marito. Sappiamo che così non sarà. Sul piano espressivo Marina Rocco, che pur non ha una voce di maggior possanza, supplisce con un convincente temperamento drammatico.
E, come ultima chiosa, sarà poi vero, come s’è voluto sostenere, che Nora sia in realtà la vera manipolatrice del comportamento dei “suoi” tre uomini, la vera causa di tre disperazioni? Checché se ne dica, in questo mondo di perdenti, son tutti naufraghi, compresa Nora, non solo il marito. Helmer sarà condannato alla solitudine. Nora ai rimorsi, o al rimpianto. Chi sa?
Belle e pertinenti le molte, piccole ma pregnanti invenzioni registiche della Shammah, dalla balia (che forza Andrea Soffiantini), alla piccola Angelica Gavinelli (che suona l’arpa dal vivo) ed ha una disinvoltura da grande attrice, o, meglio, da attrice grande, fino alla muta presenza scenica di Elena Orsini simbolo del Destino. E poi i brevi ma significativi inserti da “La commedia dell’amore”, sempre di Ibsen, che aggiungono tocchi ora di non perduti sentimenti ora di spicciola saggezza contadina. Bene.
Lo spazio scenico, semplice e funzionale, è dello storico scenografo del Pier Lombardo, Gian Maurizio Fercioni. Convinti e cordialissimi applausi alla fine per tutti.
CASA DI BAMBOLA, di Henrik Ibsen, con Filippo Timi, Marina Rocco, Mariella Valentini, Angelica Gavinelli, Andrea Soffiantini. Regia di Andrée Ruth Shammah. Spazio scenico di Gian Maurizio Fercioni. Teatro Franco Parenti, Via Pierlombardo 14, Milano. Repliche fino a mercoledì 24 febbraio.