Ed ecco, dopo quarant’anni, il vecchio Rocky di nuovo sul ring. Ma come allenatore. Con tenerezza e commozione

rocky n. 7(di Marisa Marzelli) Certe coincidenze danno da pensare, anche se – ovviamente – sono dovute al caso. Usciti più o meno nel medesimo periodo, Creed è la settima tappa delle vicende pugilistiche di Rocky Balboa (Sylvester Stallone),Star Wars – Il risveglio della forza è il settimo episodio della saga stellare. Entrambi i film sono portatori di un immaginario collettivo di grande impatto e lavorano sull’effetto nostalgia, ma al contempo effettuano una svolta generazionale: non solo nel voler catturare nuovi e più giovani spettatori, ma nell’introdurre nelle storie “i figli” di ormai leggendari personaggi. Le analogie finiscono qui, o quasi, perché entrambi i film sembrano tornare narrativamente a certa emotiva semplicità degli inizi.
Saga storica, quella di Rocky affonda le radici nel mito americano (oggi molto ammaccato) del farcela a diventare un numero uno pur partendo dal basso. Insieme a Rambo è il personaggio che ha dato a Stallone fama mondiale. Il primo Rocky è di quarant’anni fa, i sequel si sono succeduti nel ’79, ’82, ’85, ’90 e 2006. Ora, invece di andare spegnendosi, la storia si rianima, il vecchio Sly (l’attore avrà 70 anni a luglio) infiamma pubblico e critica, ha appena vinto un Golden Globe come migliore non protagonista e ce l’ha fatta ad ottenere, nella stessa categoria, la candidatura all’Oscar. Effetto nostalgia, certo, ma in Creed c’è dell’altro, c’è un’accorata riflessione sul declino fisico e sul rinnovamento di energie e speranze passando il testimone a più giovani forze.
A dirigere è il 29enne afro-americano Ryan Coogler; protagonista è il promettente Michael B. Jordan, nel ruolo del figlio naturale di Apollo Creed (storico avversario e amico di Rocky, morto sul ring nel quarto titolo del brand), ragazzo nero che non ha mai conosciuto il padre, è poi stato adottato dalla moglie di Apollo, vive un’agiata vita a Los Angeles ed è stato appena promosso al lavoro. Ma la sua vera passione è la boxe, così molla tutto e va a cercare a Philadelphia il vecchio Rocky, ritiratosi dal mondo sportivo e gestore del ristorante intitolato all’amata moglie scomparsa, Adriana. Dopo i primi tira e molla, Rocky accetta di allenare il ragazzo che – appena si sparge la voce che è il figlio di Apollo Creed – trova subito ingaggi per combattere. Tutto lo sviluppo narrativo corre verso l’incontro finale, con un campione di Liverpool.
Ma non è solo un film indirizzato ad un pubblico maschile appassionato di pugilato (le scene degli incontri, degli allenamenti, delle palestre sono ricostruiti con fedeltà e accuratezza a detta degli esperti di boxe), c’è una delicatezza trattenuta ed emozionata nei tempi del racconto. Si avverte sincera commozione nelle scene in cui Rocky va al cimitero e parla, con semplicità, alle lapidi dei suoi cari; in quelle di Rocky che tiene il pupillo all’oscuro della propria grave malattia o nel personaggio della ragazza di Creed, una giovane cantante che sta diventando sorda. E arriva anche l’immagine attesa con trepidazione dai vecchi fan: Stallone, con qualche affanno, risale ancora una volta la scalinata del Museum of Art di Philadelphia, diventata meta turistica proprio grazie ai film di Rocky Balboa. Due gli incontri sul ring del giovane Creed, adrenalinicamente filmati: uno a metà, interlocutorio, e quello finale, che prelude ad un nuovo sequel della serie. Del resto inevitabile, visto il successo ottenuto dal film. Anche se non sarà Coogler a dirigerlo, perché impegnato nella realizzazione di Black Panther, supereroe dei fumetti Marvel.
Una nota di merito anche per la sceneggiatura. Attenta a riproporre il canonico rapporto maestro-allievo, che smargina nell’affettivo rapporto padre-figlio, ma anche a sottolineare come nel mondo d’oggi le premesse siano cambiate. Il giovane Creed, al contrario del Rocky degli esordi, non deve affermarsi a suon di pugni per salire nella scala sociale, sceglie invece consapevolmente di inseguire il proprio sogno sportivo.
L’interpretazione di Sylvester Stallone è bella, misurata, matura e rende merito ad un attore che forse è stato giudicato frettolosamente in troppi film solo come icona dell’eroe d’azione con tanti muscoli e poco cervello.