Elogio al silenzio. E gli attori/mimi di Thomasset creano, alla Biennale, un Ensemble di magiche atmosfere coreografiche

VENEZIA, martedì 24 luglio ► (di Paolo A. Paganini) Una piccola digressione di spicciola erudizione scolastica in fatto di strutturalismo (giuro, non lo faremo mai più). Il segno linguistico è, per Saussure, un’entità psichica a doppia faccia, che unisce un concetto e un’immagine acustica, cioè significante e significato. È alla base dei linguaggi della comunicazione. Eppure, sbrigativamente, tutto è “segno”, anche se è soprattutto riferito alla parola parlata e alla parola scritta.
Ciò premesso, lasciando tutto il resto nei canoni fondamentali dello strutturalsmo, l’enunciato si può estendere non solo alla critica linguistica, ma anche, nella fattispecie, alla critica teatrale. Con qualche interessante variante, estendendo il concetto di segno non solo alla parola parlata o scritta, ma anche, perché no?, ad ogni altra espressione dello spirito umano, al gesto, alla mimica, perfino all’inespresso, intendendo con ciò riferirci a un aspetto prepotentemente “rappresentato”, fin dall’inizio di questa edizione della Biennale Teatro di Venezia: il silenzio. Efficacemente (ed eccessivamente) affrontato fin dall’inaugurale “Orestea”.
Ma il silenzio è, anch’esso, linguisticamente, entità psichica a doppia faccia, che, a sua volta, ancorché discutibile, possiede le qualità di significante e di significato. Il significante, per assurdo, come mancanza di suono, e il significato come espressione d’una attesa, d’un disagio, sintomo di eventi, prodromo di sciagure, o promessa di festose celebrazioni. M che può rientrare anche nei proverbi della saggezza popolare: “Un bel tacer non fu mai scritto”.
Tutta questa saccente pappardella è ora ispirata a Vincent Thomasset, con “Ensemble ensemble”, in scena al Piccolo Arsenale, spettacolo sulla ricerca dell’identità personale, sul valore della parola, sull’ideale dibattito intorno alle norme comportamentali e alla loro reale capacità di rappresentare una corretta comunicazione. In “Ensemble”, a complicare il giudizio, forse, fra silenzi e parole, serpeggiano anche segni di una dolce follia. La ripetitività delle parole denuncia talvolta un disagio linguistico, o psichico. Perché è il silenzio, il maledetto silenzio, dannazione di ogni rapporto umano, a dare il segnale forte di una sofferenza, di una incapacità di essere. Di essere normali, di essere sinceri in dichiarate espressioni di amore o di odio. Insomma di essere se stessi. Il silenzio è come il buio per la luce. Necessario. Indispensabile dunque ad ogni forma di teatralità e di espressività artistica, dalla parola alla musica. Negli ultimi tempi, uno stanco Eduardo non sprecava più la parola. Bastava un gesto della mano. E tutto diventava chiaro, comprensibile. Il silenzio ha un’eloquenza gridata seppur inafferrabile, come la poesia, come il suono d’un violino o il sussurro d’attesa d’una parola d’amante.
In questa seconda performance degli attori/mimi di Thomasset, dopo il precedente “Lettres de non-motivation”, si assiste, in un’ora senza intervallo, all’incontro di una coppia e del loro doppio, che tentano “di trasformare la difficoltà di comprendere in maniera univoca in un’ode alla molteplicità”, cercando di definire con le parole il senso di ciò che circonda i personaggi, in rapporto fra di loro e fra di loro e la natura.
La suggestione delle musiche, che irrompono nel silenzio in una concitata oppressione di provvisorietà, fa da contrappunto alla loro volontà di essere, di essere riconosciuti nella loro identità.
Eppure, alla parola, al silenzio, alla musica, bisogna qui registrare una quarta protagonista, la mimica, che, in creazioni di empatica partecipazione, stupefacenti robot, colloca i quattro attori ai massimi vertici dell’espressività coreografica, della quale sono anche autori. Bravi. Almeno li nomineremo, assegnando loro uguali meriti artistici: Aina Alegre, Lorenzo De Angelis, Julien Gallée-Ferré, Anne Steffens. Cordialissimi applausi alla fine. No repliche.