(di Marisa Marzelli) Lanciato dal Sundance e vincitore di premi internazionali (tra cui miglior regia a Un Certain Regard a Cannes e premio del pubblico all’ultima Festa del Cinema di Roma) Captain Fantastic mi sembra leggermente sopravvaluto. È una storia originale, ben filmata e ben recitata, ma è il contenuto a destare sospetti di qualche superficialità e furbizia nel catturare lo spettatore.
Scritto e diretto dall’attore Matt Ross, qui alla seconda regia, il film mescola disinvoltamente La Repubblica di Platone, Marx e la filosofia hippie. Ma niente di pesante, anzi, Captain Fantastic alterna dramma e commedia, riflessione e risate.
Il capofamiglia Ben (Viggo Mortensen, noto ai più come Aragorn del Signore degli Anelli) vive con i sei figli nelle foreste americane del nord. Ha addestrato con amorevole pugno di ferro i ragazzi (dai 18 ai 6 anni, ognuno dei quali ha un nome inventato, e perciò unico al mondo) ad una vita spartana dove bisogna cacciare per procurarsi il cibo (salvo, in caso di necessità, un esproprio proletario al supermercato) e a seguire un severissimo addestramento fisico. Ma i figli devono anche studiare lo scibile umano: parlano varie lingue, discutono con linguaggio forbito di letteratura e fisica quantistica. In famiglia non si festeggia il Natale ma il Noam Chomsky Day. Bandita, dunque, la società dei consumi, con la quale però la piccola tribù dovrà fare i conti. Infatti la madre, da tempo ricoverata per problemi psichici – e non c’è da stupirsene, sebbene il film sorvoli su questo punto – si suicida.
Bisogna andare al funerale, anche per impadronirsi delle ceneri e disperderle, come dal volere della defunta, e venire a contatto con un mondo del tutto nuovo. Popolato di tanta gente grassa, di ragazzini ignoranti inebetiti dai videogiochi, di regole strane. Uno dei piccoli, a tavola, chiede all’allibita zia come sia stato ucciso il pollo che ha nel piatto; lei risponde che l’ha comprato già cotto in rosticceria. Al di là delle battute, affiorano problemi sostanziali. Il figlio maggiore, ad esempio, ha scritto per essere ammesso all’università, ha ricevuto lettere tutte positive ma non ha il coraggio di dirlo al padre, anche se il ricco nonno (Frank Langella, ottima presenza per un piccolo ruolo) si offre di sostenere le spese.
È qui che s’incrinano molte convinzioni del padre-padrone, sino ad allora convinto di aver allevato i figli nel modo migliore possibile. Ricorda un po’ quei genitori reduci dal ’68 che non volevano la televisione in casa e proibivano ai figli di vederla, nelle intenzioni per il loro bene, ma facendone dei disadattati e solitari a scuola.
Il finale è affrettato e compromissorio: le due visioni antitetiche della vita si smusseranno un po’.
Se nella prima parte sembra che tutte le pecche e contraddizioni – dal punto di vista dell’intransigente Ben e dei figli che hanno cieca fiducia in lui – stiano nel nostro modo di vivere di società avanzata, nella seconda il ragionamento si ribalta e, seppure imperfetta, la civiltà (intesa come polo della contrapposizione natura/cultura) rivendica le sue ragioni. Detto in altro modo – e qui il ragionamento è più sottile e sfumato – i ragazzi selvaggi, visti quasi come compagni di Peter Pan sull’Isola che non c’è, crescono, affrontano un percorso di formazione e di emancipazione da un padre sino ad allora visto come un dio.
Il regista Ross, cresciuto in gioventù in una comune, probabilmente ha attinto anche ad esperienze autobiografiche, ma per renderlo più commestibile a palati cinematografici che vogliono anche divertirsi e non solo pensare, stempera il racconto semplificando i nodi più problematici e concentrandosi (troppo?) sul folcloristico.
In ogni caso, dal punto di vista cinematografico, Captain Fantastic (il titolo è ironico, da supereroe) ha sempre buon ritmo e trovate a ripetizione. Anche se dire che spinge a mettere in crisi lo spettatore sul ruolo e le responsabilità di genitore è esagerato. Perché il modello genitoriale proposto è volutamente eccessivo.
Buono il cast, non solo Mortensen ma anche i sei ragazzi, spontanei e ben delineati nei caratteri, in particolareil figlio maggiore (il giovane attore britannico George MacKay) che diventa antagonista rispettoso ma deciso del padre; soprattutto dopo che, ad una ragazza che gli piace, incontrata per la prima volta, chiede inginocchiandosi di sposarlo. Perché le sue esperienze reali di vita sono pari a zero.
Elogio alla vita spartana. Abbasso il consumismo. Ma al contatto con la realtà addio certezze. Meglio venire a patti
11 Dicembre 2016 by