Elogio della stupidità, da Plauto a Shakespeare. Spesso nasce dal non credere all’evidenza. Ma talvolta è un’“arte”

(di Andrea Bisicchia) – Lo stupido è un personaggio che troviamo nelle Commedie di Plauto e, di conseguenza, nella Commedia dell’Arte che molto si ispirava ai testi plautini, lo troviamo anche in alcune commedie di Shakespeare (il famoso fool) che, però, è anche intelligente.
Due professori americani di filosofia hanno scritto, a quattro mani: “Quando persone intelligenti hanno idee stupide. Come la filosofia ci salva da noi stessi”, edito da Cortina, nel quale si chiedono perché professionisti della cultura e anche della scienza debbano pensare male, comportandosi da stupidi, nei confronti di eventi come il Covid o il cambiamento climatico, eventi che hanno sottovalutato o che hanno considerato delle “bufale”. A loro avviso, la stupidità consisterebbe nel non credere all’evidenza, come se l’evidenza fosse una verità assoluta. Secondo noi, anche ciò che sembra evidente può essere soggetto a delle interpretazioni, come ci insegna l’ermeneutica, per la quale solo l’interpretazione è fonte di libertà e non di stupidità che al contrario è fonte di riso ed anche di indagine, perché, se manca quest’ultima, viene a mancare la comicità.
Come accostarsi, allora, alla stupidità delle persone intelligenti? I due autori propongono l’intervento della filosofia. Chi ha avuto la fortuna di leggere “Il discorso sulla stupidità” di Musil, pubblicato in Italia da Shakespeare & Company, con prefazione di Giancarlo Mazzacurati, potrebbe mettere in relazione le idee dello scrittore con quelle dei due filosofi, dato che Musil sosteneva che la stupidità si serve di idee importanti ed è capace di “rivestire” tutti i vestiti che indossa la verità.
Per l’autore di “L’uomo senza qualità”, la stupidità è un “sistema complesso di equazioni”, proprio come lo è la scienza, il cui scopo consisterebbe nella “enumerazione di relazioni funzionali” e non certo nella verità assoluta.
Sarebbe bello leggere anche “Della stupidità”, di Horst Geyer, pubblicato nel lontano 1957 da Bompiani, dove l’autore elenca le diverse forme di stupidità, da quelle che derivano dalla mancanza di intelligenza a quelle che derivano da una normale intelligenza. I due libri non sono, forse, conosciuti dai due autori americani, perché non vengono citati nella pur ricca bibliografia, del resto, ciò che a loro interessa è dimostrare che la stupidità è frutto del pensare male (come è ben noto, Andreotti diceva che chi pensa male qualche volta ci azzecca), e che si tratti di una forma di testardaggine che epistemicamente parlando (l’epistemologia si concentra su questioni relative alla conoscenza) è tipica del testardo, ovvero di colui che crede soltanto quando esistono delle prove sufficienti.
Il problema, allora, consisterebbe nel cercare le prove reali o metafisiche come hanno fatto, in passato, Sant’Agostino o Cartesio per cercare la prova dell’esistenza di Dio. Per Nadler e Shapiro, è un errore morale non credere alle prove evidenti, proprio perché si infrange una prova epistemica. Risulta chiaro che entrambi si mostrino come i veri difensori dell’Evidenzialismo, lo stesso che rimanda a Pascal, secondo il quale, nessun “credo” può essere sostenuto se non sia supportato dalle prove, ma ben sappiamo che, contro l’Evidenzialismo, si schierò la filosofia analitica che si ispirava a Wittigenstein e che faceva parte delle Epistemologia riformata.
Ora, se l’individualismo intende partire dai fatti, il presupposionalismo afferma il contrario, ovvero che sia necessario partire dai presupposti, cioè dai concetti che vengono molto prima. Nadler e Shapiro sono convinti che esistano delle informazioni inaffidabili e che occorra fare delle distinzioni tra il credere e l’avere conoscenza.

Steven Nadler, Lawrence Shapiro: “Quando persone intelligenti hanno idee stupide. Come la filosofia ci salva da noi stessi”, Raffaello Cortina Editore 2022, pp. 220, € 19,00.