Elogio di Italo Svevo alla sigaretta, vizio perfetto. Ma che vada tutto a remengo. E muoia Sansone con tutti i Filistei

MILANO, sabato 15 febbraio ► (di Paolo A. Paganini) Quando ormai sembrava essere sceso fatale oblio sul ricco commerciante triestino Ettore Schmidt, scrittore con nome d’arte Italo Svevo (1861-1928), che, dopo “Senilità” (1898), era praticamente scomparso dalle cronache letterarie, ecco, dopo venticinque anni, nel 1923, “La coscienza di Zeno”.
La narrazione di questa sua nuova opera, una introspezione psicoanalitica dell’atavica neghittosità e abulia del quasi autobiografico protagonista, l’ipocondriaco Zeno Cosini, fece riconoscere a critici e commentatori europei singolari parentele e interessanti prossimità con Joyce e Proust, anzi, venne anche giudicato come precursore di Joyce e Proust. Ma dovette arrivare, nel 1925, Eugenio Montale. In un articolo riaccese subito lo svogliato interesse della critica italiana, la quale gli si accodò nel collocare Italo Svevo tra i grandi della letteratura del Novecento.
Il romanzo analizza la coscienza dell’annoiato Zeno, e la sua malata deformazione della realtà. Uomo triste stanco e incapace di vitali azioni e di generose iniziative, Zeno trova fugace risveglio di consolanti felicità in qualche desiderio di gonne e, soprattutto, nel vizio del fumo. Vizio perfetto. Un vizio che non appaga mai. Consunta una sigaretta, si riaccende il bisogno di farne fuori un’altra. Sì, è un vizio perfetto. Monumentale mitica gioiosa inappagabile sigaretta. Lenisce, consola, e, finalmente, dà un senso alla vita di Zeno.
Ma sì, tra una sigaretta e l’altra, decide perfino di sposarsi. Ama le avvenenti sorelle Malfenti, ma si unisce proprio ad Augusta, quella che meno gli piace, mentre Ada, la più desiderata, va sposa a Guido, cialtronesco e inaffidabile, che non fatica a convincere Zeno a mettersi con lui in un’azienda catastroficamente fallimentare. A Zeno non importa più di tanto. E, tra una sigaretta e l’altra, si fa, pieno di scrupoli e di rimorsi, una giovane amante, una povera ragazza, della quale farà presto a stancarsi, mentre il socio Guido fingerà un patetico suicidio che, invece, meglio che non gli affari, gli riuscirà per davvero.
Questa, in sintesi, la trama del romanzo, dove si immagina Zeno che scrive in un diario i suoi malesseri, consigliato dal suo medico, per aiutarlo così a riconoscere la propria accidiosa inutilità, a spingerlo fuori dalla sua abulica indifferenza. Rimarrà soltanto, in poche pagine finali, l’angoscia d’un male più sottile, tipico di quella inguaribile fiacchezza morale così congeniale a certa provincia delle Tre Venezie. E, per concludere il tutto, povero Zeno, con il fallimento di una vita, per lui simile a tutta l’umanità, ecco la descrizione di una catastrofica profezia, quando un gigantesco ordigno distruttivo finalmente farà rinsavire tutta l’umanità, che Zeno riconosce simbolicamente in sé, nella sua abulia morale. “Una catastrofe inaudita… una esplosione enorme, che nessuno udrà. E la terra, ritornata alla forma di nebulosa, errerà nei cieli, priva di parassiti e di malattie… E no steme tormentar (cioè, smettetela di rompermi le scatole!)…”.
E muoia Sansone con tutti i Filistei.
Ne abbiamo accennato, ora, per spiegare le scelte che Paola Ornati, Marco Rampoldi e Corrado Tedeschi hanno drammaturgicamente ridotto per la scena del Teatro San Babila, dove, in due ore con un intervallo, è stata rappresentata una nuova versione della “Coscienza di Zeno”, dopo la riduzione che, in passato, ne fece Tullio Kezich, uno dei massimi conoscitori del conterraneo Svevo (se ne ricorda una con Giulio Bosetti nel 1965, un’altra con Massimo Dapporto e Virgilio Zernitz nel 2002; e un’altra ancora nel 2013 con Giuseppe Pambieri).
Questa ultima esce, per forza, da ogni confronto con le edizioni passate. Tullio Kezich ora non c’è. E non poteva esserci. Il taglio drammaturgico ammicca, con scherzosa indulgenza, al café chantant e al cabaret. C’è in scena un pianoforte con qualche musica dal vivo di Gianluca Sambataro. Intanto, Corrado Tedeschi (Zeno), su una pedana e divano da psicoanalisi, narra ambasce e angosce con pudore menefreghista. È, tutto sommato, distaccato da tutto, forse più vittima degli altri che di se stesso. Lo affiancano, volenterosi e spigliati, ora in scena ora in platea, Claudio Moneta, Roberta Petrozzi, Camilla Tedeschi, fingendo di coinvolgere gli stessi spettatori. Regia di Marco Rampoldi.
Ma, essendo di carnevale, che ogni scherzo vale, teniamo per buono anche questo allestimento. Che avrebbe bisogno di poderosi ritocchi. Qui, al San Babila, dopo alcune recite di rodaggio fuori Milano, è in prima nazionale. E qui smetterà, per riprendere più avanti. C’è dunque tempo per lavorare di più sulle voci, che, in Corrado Tedeschi e sul versante femminile, sono deboli e poco coinvolgenti.
Eppoi, le stesse incursioni, giù in platea, sono ormai un trucco stanco e consunto. Gli spettatori fan finta educatamente di stare al gioco, e forse si divertono veramente. Ma sarebbe meglio lasciar perdere. La scena, infine, a tre pedane di diversa altezza, risulta più improvvisata che definitiva, e risulta poco congeniale.
Al sipario finale, pubblico in grande empatia con tutta la compagnia. Repliche fino a domenica 1 marzo.

TEATRO SAN BABILA – Corso Venezia, 2/A – 20121 Milano -Tel. 02 798010.
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