“Emily”. Vita e passioni di una donna “strana”. Vittoriana e moderna insieme. Che scriverà “Cime tempestose”

(di Patrizia Pedrazzini) “Emily”, primo film della regista anglo-australiana Frances O’Connor, è il racconto della breve vita della scrittrice vittoriana Emily Brontë, morta di tubercolosi a trent’anni poco dopo aver dato alle stampe, nel 1847, un solo romanzo: “Cime tempestose” (che l’invidiosetta sorella Charlotte, destinata a firmare in seguito “Jane Eyre”, definisce “un libro pieno di gente egoista che pensa soltanto a se stessa”).
E diciamo subito che si tratta, pur con qualche limite, di un buon film. Magari lungo un quarto d’ora di troppo (dura due ore e dieci minuti), magari storicamente non sempre ineccepibile, romanzato com’è qua e là. Tuttavia delicato e forte quanto basta (e ci si aspetta), ottocentesco e “moderno” quanto serve per uscire dalla gabbia del mero esercizio stilistico e letterario.
D’altra parte la giovane Emily, figlia di un reverendo protestante severo e autoritario, segnata dalla morte prematura della madre, non è proprio il prototipo femminile dell’età vittoriana. Agli occhi dei suoi, è “strana”, ovvero ribelle, introversa, poco incline all’obbedienza, per niente interessata a un futuro da insegnante, uno dei pochi mestieri consentiti alle donne del tempo. Legatissima al fratello Branwell, pittore senza speranze, dedito all’alcol e all’oppio, si innamora del nuovo curato del paese, Weightman, lasciandosi andare a una relazione appassionata e segreta che sarà l’uomo stesso, improvvisamente, a interrompere.
Quello che ne consegue, sullo schermo, è il ritratto intimo, appassionato e sensuale, prima ancora che letterario, di una donna “diversa”, cui Emma MacKey (“Sex Education”) conferisce un carattere e, persino nei lineamenti, una modernità che estrapolano il film dal suo contesto vittoriano, facendone la storia, quasi senza tempo, di una figura femminile destinata a tutto tranne che all’oblio.
Anche a scapito, ed è qui il limite del film, di “Cime tempestose”. Accennato quasi frettolosamente alla fine, messo come da parte, non “spiegato” come ci si aspetterebbe e forse come dovrebbe. Certo, non mancano, nella storia, le atmosfere dell’Inghilterra di inizio Ottocento, l’isolamento rurale, le brughiere selvagge dello Yorkshire che faranno da sfondo all’infelice amore di Cathy e Heathcliff. Solo che ci si aspetta, per tutta la durata della pellicola, di riconoscere, nella vicenda privata di Emily, qualcosa che rimandi a quello che sarà il suo capolavoro. Qualcosa, per dirla meglio, di autobiografico. Magari nel carattere “folle” e anticonformista di Branwell, o nei comportamenti contraddittori di Weightman. Fatica inutile.
Forse una scelta. Forse mancanza di tempo e di spazio. Forse, semplicemente, saranno un amore travolgente e impossibile, una società chiusa e una famiglia che la vuole diversa da quella che è a liberare le capacità artistiche e creative di Emily. Che infatti scriverà “Cime tempestose” dopo la fine della storia con Weightman.
Ed è un peccato. Perché così “Emily” si riduce a una, seppur non trascurabile, storia di talento e sensibilità femminili costretti nei confini di una società perbenista e patriarcale. Il che non è poco. Ma non basta.