
L’inaugurazione della Biennale è stata solennemente (e chiassosamente) celebrata con l’assegnazione del Leone d’Oro e del Leone d’Argento
VENEZIA, sabato 21 luglio ► (di Paolo A. Paganini) Teatro, letteratura, filosofia e ovviamente religione han sempre dovuto fare i conti con l’ineluttabile concetto di morte, sulla comune dissolvenza nel nulla o sulla sopravvivenza dell’anima. O dei ricordi, attraverso l’amore. O la poesia. Dovremmo essere dunque vaccinati e assuefatti all’angoscia che ci pervade al solo pensiero della fine.
Ma ora ci viene ricordato che “i giardini della memoria, il cofano dell’amato, i terapeuti del dolore sono solo inutili evasioni dalla morte“. È quanto recita la corposa didascalia, che fa da introduzione all’Orestea, in prima assoluta, messa in opera dalla compagnia Anagoor (fresca di Leone d’Argento), ad apertura della Biennale Teatro. Una funerea celebrazione di quattro ore, con un intervallo, al Teatro delle Tese (Arsenale), in morte di Agamennone, tornato dalla Guerra di Troia, con schiava al seguito, la scalognata menagramo Cassandra, uccisa da Clitennestra (giustamente definita dalla critica come il primo vero personaggio della tragedia greca), la quale poi sarebbe stata fatta fuori con il suo ganzo Egisto dal vindice Oreste, figlio della regina e di tanto padre, l’eroe greco che pur aveva sacrificato la figlia Ifigenia per qualche divina folata di vento elargita sulle asfittiche vele in bonaccia.
La morte, dunque. Quattro ore per parlarne, con intense e non gratuite divagazioni, commistioni, contaminazioni, talvolta di sapore predicatorio, altre volte di sincera commozione poetica e di precisi recuperi filologici, altre ancora con metafisici voli consolatori, anche quando Eschilo diventa solo un pretesto o un simbolo metaforico. Come un modello di cointemporanee affinità.
“Il morto si allontana da noi velocemente. Una volta uscito dalla casa, fugge lontano. Dopo pochi giorni, dopo poche ore, la sua immagine è già irrecuperabile, la sua voce inudibile, il suo sguardo dimenticato.”
Eppure, “amare perfettamente qualcuno comporterebbe il morire con lui. La morte ci scopre imperfetti… Per nostra disgrazia, non sappiamo fare altro che avvolgere una corona del rosario fra le dita rattrappite. E stiamo dimenticando anche questo“.
E allora? Non rimane altro che “sacrificare un gallo a Esculapio“, tanto per citare un’altra celebre morte. “Esculapio salvatore dà la medicina giusta, e Socrate guarisce dalla vita. Il gallo dell’aurora canta per la morte“.
Vaccinati, esorcizzati. Ora e sempre. Fin dalla scuola, fin dai sepolcrali canti foscoliani, All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?…”
E poi scorpacciate dantesche. E poi, per conto nostro, immersioni in dostoewskiane Memorie di case dei morti. E quanti Spoon River, da Edgar Lee Masters a De André.
Eppure, dopo duemila e cinquecento anni dall’Agaménnon di Eschilo, quell’angoscia di morte, quell’oscuro male dell’anima, rimane sempre abbarbicato agli incubi, o al dolore, della nostra infelicità. Come una colpa, come una dannazione, o come, per Eschilo, giustizia divina. E inutilmente dirà il buon Pietro Metastasio, esperto fraseografo di morti e affini: “Non è ver che sia la morte il peggior di tutti i mali, è un sollievo de’ mortali che son stanchi di soffrir…”
Da tutto questo cumulo di debiti morali e letterari, e proprio su tutto questo, è stata riedificata, diremo meglio ricreata l’Orestea di Echilo, in un’operazione tra l’audace e il temerario, per tre quarti rivisitata come un invadente e affascinante radiodramma, con stordimenti musicali, incastri di video e ieratiche scene, più mimate che recitate. Ma l’altro quarto, a completare l’opera, è rappresentato da due scene, superbe, indimenticabili, che quasi valgono da sole tutto l’allestimento. Il quale, onestamente, ci è parso più una pur geniale sperimetazione, che non un lavoro già definito e compiuto.
Alcuni tagli s’imporrebbero, alcune scene andrebbero accorciate, la recitazione andrebbe registicamente rivista, con tempi più stretti, i quali non sacrificherebbero una recitazione talvolta aulica e solenne come un rito religioso, o altre volte armonicamente e iconograficamente esaltante, come l’espressione di un quadro di Bisanzio.
Ma su tutte prevalgono due scene, alle quali abbiamo accennato: l’incontro di Agamennone e Clitennestra, con la pudicizia di una morte sacrificale in una religiosità senza strazio, da brividi; e il sacrificio del bianco agnello, con gli aruspici a interpretare il volere degli dèi. E a suscitare la nostra pietas.
Applausi calorosissimi per tutti alla fine. Come se il tempo non fosse passato. Buon segno.
“ANAGOOR – ORESTEA. AGAMENNONE, SCHIAVI, CONVERSIO”, sull’Orestea di Eschilo, drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi, traduzione dal greco Patrizia Vercesi, Simone Derai. Con Marco Ciccullo, Sebastiano Filocamo, Leda Kreider, Marco Menegoni, Gayané Movsisyan, Giorgia Ohanesian Nardin, Eliza G. Oanca, Benedetto Patruno, Piero Ramella, Massimo Simonetto, Valerio Sirnå, Monica Tonietto, Annapaola Trevenzuoli – Musica e sound design Mauro Martinuz. All’Arsenale, Teatro alle Tese. Non repliche.