(di Andrea Bisicchia) L’estetica studia i criteri del bello, facendo ricorso alle categorie del gusto e del piacere che presuppongono, a loro volta, la teoria del giudizio. Edgar Morin, nel volume appena uscito per L’Editore Cortina: “Sull’estetica”, evita le dottrine filosofiche, per soffermarsi sul “sentimento estetico”, concepito come emozione, riscoprendo, in tal modo, il valore originario della parola greca che vuol dire “sensazione”, provocata, non solo, da un’opera d’arte, ma anche e, soprattutto, dallo spettacolo della natura, sottolineando come essa non sia altro che un aspetto della conoscenza riguardante l’uso dei sensi. La natura contiene una esuberanza creativa, tanto da essere produttrice d’arte, includendo l’estetica in questa attività che è, secondo Morin, conseguenza di uno stato di possessione, durante il quale avverrebbe la creazione.
L’emozione estetica che ne deriva è, a suo avviso, “uno stato secondo”, frutto di un atteggiamento mimetico che asseconda lo stato di trance, dal quale dipende l’elaborazione creativa che spiega il motivo per cui l’artista sostiene di essere investito da una missione.
Cosa vuol dire, per esempio, che un attore sia “posseduto” dal personaggio e viceversa? Cosa vuol dire, per un pittore, essere posseduto dalla persona a cui fa il ritratto? Vuol dire che la creazione è conseguenza di uno stato di mimesi oppure di semi trance che permette di utilizzare, sia le forze consce che quelle inconsce dello spirito, le quali danno vita a quella che, generalmente, viene chiamata ispirazione, pronta a riprodursi attraverso, non solo con le forme di possessione, ma anche di divinazione.
Ciò spiega il motivo per cui, sempre per esempio, l’attore dice: “entro nel personaggio, o il personaggio entra in me”, con la consapevolezza che, quando va in scena,” vive” il personaggio, in uno stato di semipossessione, proprio perché una parte di se ne è consapevole. Lo stesso accade al poeta, al drammaturgo, al narratore.
Per Morin, gli stati creativi non sono dei sottoprodotti, bensì il risultato di uno stato emozionale che corrisponde, spesso, all’estasi che, a sua volta, genera una forma di sdoppiamento, creando una situazione dualistica che coinvolge, non soltanto l’artista, ma anche colui che cerca di interpretare la sua performance, ovvero lo spettatore che è, contemporaneamente, l’osservatore semicosciente, tanto da entrare anche lui in uno stato di trance.
Solo in questo modo, i quadri di una mostra, i personaggi di un romanzo o di uno spettacolo prendono vita nella partecipazione dello spettatore. Alcuni intellettuali hanno sostenuto che, in simili casi, lo spettatore entri in uno stato di allucinazione, quasi ipnotico, che gli fa perdere la lucidità della coscienza. In epoca recente, sostiene Morin, esiste anche una “estetica allargata” che si applica, indiscriminatamente, alla non arte, grazie all’abbattimento delle frontiere che ha favorito tipi di bellezza ben differenti da quelli dei canoni estetici, che prediligono la disarmonia, fino all’esaltazione della bruttezza e ad estetizzare la disgressione, l’inautentico, la standardizzazione, persino le catastrofi. Jean Baudrillard osò parlare di estetica dinanzi alla distruzione delle Torri Gemelle, benché si riferisse alle immagini che si vedevano ossessivamente ripetute sugli schermi. Si è, così, affermata una generalizzazione dell’estetica, grazie alla quale il suo valore dipende dal prezzo. Alla stessa maniera il valore di uno spettacolo dipende dalla critica che, spesso, presenta, come capolavori, pessime messinscene.
Edgar Morin, “Sull’estetica”, Cortina Editore 2018, pp 120, € 11.