FIRENZE, mercoledì 13 aprile ► (di Carla Maria Casanova) – Inaugurazione del MMF (Maggio Musicale Fiorentino) in sala Mehta, perché la sala grande sta attendendo gli ultimi ritocchi tecnici (sarà pronta in ottobre). Opera: “Orphée et Euridice” di Christoph Willibald Gluck. Versione francese per Parigi del 1774, che segue la prima per Vienna del 1762.
Nella mitologia, la vicenda di Orfeo contempla due versioni: in una, il sublime cantore, giunto nell’Ade per recuperare la defunta amata Euridice, riesce nell’impresa quantunque abbia disatteso l’ordine di Giove di asportarla senza guardarla in viso (disobbedienza che costa una seconda morte della sposa, poi però gli dei per una seconda volta cedono al disperato marito pronto al suicidio e tutto finisce in gloria.
Nell’altra (versione) Orfeo, volto lo sguardo su Euridice, la perde per la seconda volta e sul serio. Anzi, su di lui si accaniscono furiosamente le Baccanti che lo fanno in mille pezzi. Perché mai tanta ferocia?
Qui si scatenano interpretazioni disparate tra cui quella che Orfeo, in gioventù (ma forse anche dopo) sarebbe stato uno sciupa-femmine e le sciupate, Baccanti, non gliela fanno passar liscia.
Nello spettacolo messo in scena al Maggio, pur senza attenersi a questa versione (anche perché Gluck segue il lieto fine della prima), il regista albanese Pierre Audi dal prestigioso curriculum, per la quinta volta al confronto con il mito di Orfeo, prende in considerazione i molti aspetti della seconda versione, quella del viaggio psicanalitico nell’erotismo. Vale a dire che, anziché soffermarsi sul vaneggiare disperato del neo vedovo Orfeo, punta sulla reazione, mai consultata, della neo morta sposa Euridice.
L’Euridice che, come sta scritto nel libretto di Calzabigi, se ne sta oramai nei Campi Elisi “questo luogo piacevole e tranquillo è abitato dalla felicità… nulla infiamma l’animo…” Le smanie sono venute a Orfeo. Euridice non ha chiesto niente, tanto meno di tornare a vivere. E ribatterà anzi il concetto con forza, negando a tutta prima di seguire lo sposo, “Assaporavo le dolcezze di un riposo senza ansia…. (lui) mi ha tolto dal regno della morte per ricoprirmi di indifferenza?”
Ohibò, pare addirittura una recriminazione.
Orfeo l’aveva trattata con indifferenza, in vita? Peggio, le aveva dato ragioni per essere gelosa? Sarebbe un aspetto da approfondire.
Pierre Audi si serve di questi interrogativi soprattutto nel terzo atto dell’opera dove i protagonisti, combattuti dall’ansia e dai tormenti, sembrano ripensarci per davvero. Ago della bilancia per Audi è Amore, terzo personaggio di solito molto defilato, che invece il regista mette in rilievo ponendo il sopranino in scena per tutta l’opera, in attraente abito femminile, giocando sul fisico perfetto della giovane spagnola Sara Blanch (ricordate Pippa Middelton alle nozze della real sorella, che con quel suo celebrato lato B portò quasi via la scena alla sposa?).
Il qui pro quo della vicenda di Orfeo appare evidentissimo, nella regìa di Audi, nel finale, dove anziché Ninfe, Pastori e Pastorelle che si librano in danze beate (come da copione), una ridda di spiriti non bene identificati, compresi i protagonisti e Amore, si scatenano in forsennati balli da discoteca, con mosse esplicite quando non provocatorie. E Amore dà uno strattone a Orfeo, che rimane lì solo.
Euridice dov’è? Altro che fedeltà e matrimonio. Viva la libertà!
Già che siamo in argomento, va detto che l’onnipresente Compagnia di danza di Arno Schuitemarker, magari un po’ ossessiva, esegue un lavoro pregevole e che Jean Kalman, genio delle luci con curriculum da capogiro, ha escogitato un allestimento fantastico: due pannelli trasparenti e proiezioni di immagini liquide, informi e misteriose, come dovrebbero essere nell’al di là… I protagonisti vestono di bianco, gli spiriti di nero. La luce ha un ruolo fondamentale.
L’arma di Orfeo, beninteso, è la musica di Gluck, che, nella versione di Vienna, diede il via all’operazione di riforma condotta allo scopo di delineare un’azione teatrale chiara ed essenziale e limitare gli sfoggi di bravura e le acrobazie vocali oramai in uso tra i cantanti più prestigiosi. Le arie sarebbero diventate più brevi e una cura particolare sarebbe data alla parola, al cui servizio avrebbe dovuto esser posta la musica. In un certo senso, iniziava il teatro “moderno”. È significativo notare che l’Orfeo di Vienna non aveva raccolto grandi consensi, mentre la nuova versione parigina suscitò entusiasmo delirante. Certo, le aggiunte danze, tanto care ai francesi, avevano raggiunto lo scopo.
Tre le pagine notissime: le danze delle Furie e degli Spiriti beati e la struggente aria di Orfeo “J’ai perdu mon Euridice” (Che farò senza Euridice). Orfeo, spesso cantato da un mezzosoprano (un tempo da un castrato), qui è un tenore, il che rende il personaggio fisico più credibile. Musicalmente, il mezzosoprano è più fascinoso. Orfeo è protagonista assoluto, sempre in scena, insieme con il Coro (bravissimo, tutti infilati in buca, con mascherine). L’Orchestra del Maggio, qui composta da strumenti storici, è guidata da Daniele Gatti, neo direttore principale del Maggio, per la prima volta alle prese con l’Orfeo di Gluck (opera mai rappresentata al Maggio nella versione francese). Gatti è grande direttore ma non abbastanza spericolato. Un tantino di ardire in più non avrebbe guastato.
Il tenore spagnolo Juan Francisco Gatell (Orfeo) affronta con una linea vocale spavalda non priva di accurato fraseggio il suo ruolo acuto di grande difficoltà.
Anna Prohaska, soprano austriaco, è una veterana della parte, che qui canta per la prima volta in francese. Bel colore vocale, duttilità e una certa poetica dolcezza.
La giovane Sara Blanch, catalana, canta con proprietà anche se la voce si sgrana quando sale nel registro acuto.
L’Orphée di apertura del Festival, con sopratitoli in italiano e francese, niente intervallo, durata di circa un’ora e quaranta minuti, si è guadagnato applausi calorosissimi, come a Firenze si odono raramente. Ovazione per il Coro e per il direttore Daniele Gatti. Tra il pubblico, nonostante le forzate mimetiche mascherine, si è intravvisto Matteo Renzi.
Per il tradizionale dopoteatro, il Maggio ha allestito nell’atrio dell’ingresso una fastosa mega tavolata di 160 coperti per invitati Vip.
Tornando a casa, vien fatto di rimuginare l’ultima frase buonista (tra l’altro disattesa dalla regìa) del libretto: “La sua dolce catena (vedi dell’Amore) è preferibile alla libertà”. Sarà poi vero? La storia non dice “E vissero felici e contenti”. Forse, a strappare la povera Euridice dai Campi Elisi, dove se la godeva oramai tra i suoi Spiriti beati, Orfeo non le aveva reso un gran servizio. Tra l’altro, resuscitarla per farla fatalmente morire di nuovo. Ci pensate? Uno scherzo non da poco…
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Orphée et Euridice, di Christoph Willibald Gluck. Repliche 13, 19, 21, 23 aprile.