Fahim, gli scacchi, la vita. Quando l’integrazione passa dalle regole di un antico gioco (e da un maestro come Depardieu)

(di Patrizia Pedrazzini) “Qualcosa di meraviglioso” (titolo originale “Fahim”), del regista francese Pierre-François Martin-Laval, racconta una storia vera. Quella di Fahim Mohammad (il giovanissimo Assad Ahmed), che nel 2008, a otto anni, arriva a Parigi con il padre dal Bangladesh. L’uomo abbandona il Paese di origine (dove è tuttavia costretto a lasciare temporaneamente la moglie) per fuggire lontano dalle violenze che lo insanguinano, ma al figlio giustifica la partenza promettendogli di fargli incontrare un grande maestro di scacchi, gioco del quale il ragazzino è appassionato. L’insegnante, il burbero, severo, tanto buono dentro quanto scostante fuori, Sylvain Charpentier, ha il fisico, lo sguardo e il carisma di Gérard Depardieu. Che, dapprima riluttante, poi sempre più incuriosito e conquistato, non solo intuisce il talento e le potenzialità del nuovo allievo, ma decide di farlo partecipare, con il resto della piccola classe, a Marsiglia, al Campionato francese di scacchi under 18. C’è solo un problema: Fahim è un immigrato irregolare, non può gareggiare, figurarsi vincere. Come andrà a finire?
Delicato, mai fuori misura, sapientemente in equilibrio fra dramma e commedia, con quell’immancabile tocco di leggerezza tutta francese senza la quale, probabilmente, la quotidiana battaglia per la vita potrebbe rivelarsi persa in partenza, il film di Martin-Laval è non solo l’ennesima riflessione sulla condizione disperata dei migranti, sulla loro difficile, spesso negata, integrazione, sui disagi, le paure, le sconfitte che accompagnano tanti viaggi della speranza. È anche una storia di buoni sentimenti, di solidarietà, di altruismo, e di presa di coscienza del fatto che l’integrazione passa anche da una serie di doveri, a partire dall’apprendimento di una nuova lingua, indispensabile per abbattere il muro dell’incomunicabilità. E quale gioco meglio degli scacchi, con le loro regole e la loro strategia, può essere veicolo e insieme metafora di questo cammino?
Lo scorbutico Sylvain, con le sue timidezze e i suoi accessi di rabbia (Depardieu vale da solo mezzo film), lo sguardo mesto di chi si rende benissimo conto che un certo mondo è finito eppure non riesce a perdere la voglia di lottare, tutto questo lo sa molto bene, e sa che Fahim può farcela. Non si tratta di una semplice partita a scacchi, ma di una partita per la vita. Vincerla può significare garantirsi un posto nel mondo. Il Bangladesh non c’entra, il razzismo nemmeno: è una questione di bravura e di volontà. Perché il destino ce lo si costruisce da soli.
E poi c’è la Francia, che non rinuncia mai essere se stessa: Riassunta e condensata nelle parole che, alla fine, Mathilde (Isabelle Nanty), la segretaria tuttofare (nonché segretamente innamorata di Sylvain) della scuola di scacchi, rivolge al telefono, praticamente in diretta televisiva, al primo ministro dell’epoca, François Fillon: “Signor ministro, qui c’è un giovane giocatore di scacchi che sta vincendo il Campionato francese. Lui e suo padre sono irregolari e stanno per essere espulsi. Vorrei sapere se siamo il Paese dei diritti dell’uomo, o il Paese della Dichiarazione dei diritti dell’uomo”.