(di Marisa Marzelli) Siete esperti di cyberpunk, di manga e anime giapponesi? Conoscete a memoria il Ghost in the Shell originale (1995), un cult dell’animazione nipponica? Se non lo siete è meglio, eviterete di fare paragoni filologici (e filosofici), di dare la caccia al dettaglio cambiato. È invece bene che vi intrighi la fantascienza sofisticata, quella che non punta solo all’action ma spinge a riflettere sui significati metaforici di una storia.
Ghost in the Shell live action è la versione americanizzata (co-produce Dream Works) dell’originale in animazione diretto da MamoruOshii (1995), adattato dal manga scritto e disegnato da Masamune Shirow (1991). Perciò la maggior parte dei riferimenti – e sono tanti – del nuovo film dell’inglese Ruper Sanders (Biancaneve e il cacciatore, anche in quel caso una rivisitazione) sono alla cinematografia occidentale.
Cominciamo dal titolo, da interpretare come spirito nel corpo, come rapporto interiore/esteriore, pensiero/azione. La protagonista Mira (Scarlett Johansson), ma tutti la chiamano il Maggiore perché è a capo di una squadra speciale e segreta di antiterrorismo cibernetico, è un essere ibrido. Morta su un barcone di immigrati, di lei è stato salvato il cervello e impiantato in un corpo tecnologicamente potenziato. Mira è quindi un guerriero robot, addestrata per uccidere, ma è anche in grado di ragionare, avere sentimenti e ricordi. Sono proprio questi ultimi a insinuarle dubbi sulla propria identità. Ma lei non sa che anche i ricordi le sono stati modificati in laboratorio. Mira è (così pare all’inizio) il primo robot del suo tipo, ultratecnologico e arma micidiale. Si scoprirà che è venuta dopo molti altri esperimenti falliti. E qui i rimandi si sprecano a capisaldi della cinematografia sci-fi, da Blade Runner a Robocop e Terminator. La minaccia incombente è un hacker capace di infiltrarsi nelle menti degli esseri tecnicamente potenziati e tutti in rete e influenzarle. In questo caso il riferimento, omaggiato più volte, è Matrix.
Se il film funziona alla grande sul piano dell’azione, sempre incalzante, e della bellezza visiva dell’ambientazione (sterminate città luccicanti con ologrammi pubblicitari e veicoli in transito su strade a più livelli: ancora Blade Runner e Il quinto elemento di Luc Besson, geishe robotiche che servono il té e hanno una presa da strangolatore) i concetti un po’ sfuggono. C’è troppa carne al fuoco e tutto deve confluire nei canonici combattimenti. Persino tanto canonici che ad un certo punto Takeshi Kitano (bentornato sui nostri schermi!) e il cattivo della situazione si affrontano a colpi di pistola come in un duello da vecchio West. Senza contare che il clima è da film di supereroi. Esaltato dal 3D.
Si crea quindi un’ottima atmosfera di contesto, con tanti dettagli (alcuni anche originali) al posto giusto ma il significato resta vago e in parte inafferrabile, soprattutto nelle sfumature. Perché è ovvio che il messaggio generale riflette le paure più o meno inconsce di questo inizio di XXI secolo: la scienza che modifica i corpi (trapianti, potenziamenti, fine-vita), l’hackeraggio e lo spionaggio informatico dilaganti; ma la parte più filosofica, legata al predominio che spetterebbe al pensiero, un po’ si perde. Sebbene il fatto rispecchi proprio il pensiero debole del mondo d’oggi. Più esaltato dalle “maraviglie” del blockbuster che dal ragionamento veicolato.
Ancora un accenno alle interpretazioni. Scarlett Johansson è credibile, sexy e insieme asessuata nella tutina color carne che la fa sembrare un manichino nudo. Con andatura mascolina e decisioni fulminee, fragilità malinconiche e sfuggenti. Si è fatta un’esperienza in ruoli che hanno a che fare con il digitale e l’avventura fantascientifica, da Her, dove era solo voce sensuale di un computer, a Lucy di Besson, alla Vedova Nera degli Avengers. L’ironia di Takeshi Kitano è un marchio, Michael Pitt, hacker misterioso con cappuccio calato sin sugli occhi, è di nuovo l’emblema di una giovinezza tormentata (era lui a interpretare l’icona autodistruttiva Kurt Cobain in Last Days, del 2005), il danese Pilou Asbaek delle serie televisive Borgene Il trono di spade è sempre più bravo e interiorizzato. In controtendenza Juliette Binoche, che non va oltre il diligente e già visto ruolo della scienziata con dubbi morali.