(di Marisa Marzelli) Nella mitologia della fantascienza cinematografica la saga di Terminator ha un posto in prima fila. O, almeno, l’hanno i due capitoli diretti da James Cameron: il primo nel 1984 (data simbolica, se pensiamo a Orwell) e il secondo (Terminator 2 – Il giorno del giudizio) nel 1991. I successivi due titoli (del 2003 e 2009), per i fan, non erano all’altezza. Ora ecco il quinto capitolo Terminator Genisys, dal deludente debutto in patria.
Il marchio di fabbrica del franchise, l’icona di tutti i Terminator, è T-800, il cyborg capace di rigenerare a vista i tessuti umani che ricoprono la macchina senziente. E l’interprete cult è Arnold Schwarzenegger, con il passare degli anni sempre più autoironico sul proprio mito. Quello dei Terminator è diventato un canovaccio che permette variazioni su alcuni temi dati: l’intelligenza artificiale Skynet, supercomputer autocosciente intenzionato a combattere e distruggere il genere umano, la cui resistenza è guidata nel futuro dall’eroe John Connor; i viaggi nel tempo per modificare il passato in modo da cambiare il futuro; Sarah Connor e Kyle Reese, madre e padre di John, ma lei è giovane nel passato mentre lui viene dal domani. Non si può parlare, da un film all’altro, di veri sequel o ripartenze, ma di un rimescolamento di carte sempre sulla medesima traccia. Un po’ come nella commedia dell’arte. E come nelle tante (ormai troppe) fiabe sci-fi da riraccontare ad ogni nuova generazione di spettatori cinematografici. Sarà, come molti sostengono, che Hollywood è a corto di idee e di coraggio innovativo o sarà che questi racconti sono ormai diventati classici dello schermo e perciò periodicamente riesumati. Inoltre, da sempre la fantascienza è il genere di racconto più efficace per rappresentare le paure inconsce della società in un determinato momento storico.
E allora non è forse un caso che in questo Terminator Genisys, come nel recente film della Marvel Avengers – The age of Ultron il cuore del plot sia la minaccia delle macchine, che si ribellano all’uomo per annientarlo. Certo, aveva già messo in guardia Kubrick in Odissea nello Spazio, l’aveva già detto Matrix, ma repetita iuvant. In particolare quando in Terminator Genisys si parla del conto alla rovescia per il lancio di una nuova app, con relativa attesa spasmodica, come quando si attende il primo giorno di vendita del nuovo modello di iPhone. Perché l’attualizzazione bruciante, tra le pieghe della sceneggiatura, è che la minaccia delle macchine ribelli contro gli uomini non sta solo nei guerrieri Terminator con modelli sempre più perfetti e mimetici come T-1000 e T-3000 (il tormentone di Schwarzenegger, antiquato e umanizzatosi modello T-800, è “sono vecchio ma non obsoleto”) ma nella resa incosciente degli umani ad un controllo informatico potenzialmente totalitario per il piacere di accaparrarsi l’ultimo gadget supertecnologico (caso Snowden e spioni federali insegnano).
Per il resto, Terminator Genisys soffre di due difetti tipici di tanti blockbuster odierni: un impianto narrativo debole, con falle logiche che non ci si preoccupa nemmeno di mascherare; situazioni, clima, sviluppi che si somigliano e rendono molto simili film tra loro, in teoria, diversi. In altre parole, sono prodotti molto ben confezionati ma con scarsa personalità. Perché i registi, gli sceneggiatori, gli attori vengono tutti da un mondo fantasy che si è molto contaminato. Terminator Genisys saltella tra il 2029 alla vigilia dello scontro decisivo tra uomini e macchine, il 1984, il 1997 e il 2017, con viaggi nel tempo e paradossi temporali. D’accordo il racconto fantastico, ma la sospensione d’incredulità bisogna sudarsela con qualche idea originale, anche se non geniale. Sembra invece che i realizzatori e gli spettatori si accontentino della giustificazione: viviamo in una società liquida, tutto è possibile, persino che l’eroe (senza una spiegazione ragionevole) sia venduto al nemico.
Il regista Alan Taylor ha un curriculum autorevole ma qui non va oltre una buona gestione delle grandi risorse tecniche a disposizione e il massimo del coraggio lo sfoggia “sporcando” l’action con passaggi da commedia e battute piuttosto elementari. Ha firmato il sequel Thor: The dark world (2013) ed ha diretto puntate di serie televisive blasonate, come I Soprano, In Treatment, Boardwalk Empire e Il trono di spade, ma stavolta l’eclettismo non sembra averlo agevolato.
Quanto agli interpreti principali, sono divi del pubblico giovane. Nel ruolo di Sarah Connor c’è Emilia Clarke, la Signora dei draghi di Trono di spade. Se nella serie tv è davvero uno dei personaggi più riusciti e suggestivi, qui è l’ennesima ragazza tosta che imbraccia armi (quanti cloni ha seminato la Katniss di Jennifer Lawrence in Hunger Games). Kyle Reese è l’australiano Jai Courtney, nuovo divetto giovanile dell’altra serie distopica Divergent, mentre John Connor è interpretato da Jason Clarke, fattosi le ossa con ruoli di contorno in film di richiamo, ma per ora non buca lo schermo. Su tutti, svetta il vecchio leone Schwarzy.
Fantasy con poche idee, vistosi buchi narrativi e scontati paradossi. Ma c’è sempre lui, il vecchio leone Schwarzy!
8 Luglio 2015 by