Far finta di pregare e pensare ai cavoli propri. E un “Cyrano” di Rostand tra le efferatezze dell’assedio di Sarayevo

NOSTRO SERVIZIO – VENEZIA, giovedì 1 agosto ► (di Paolo A. Paganini) C’era una volta: la Messa, le chiese gremite di fedeli, c’era il latinorum con il quale si rivelava il mistero della fede o della poesia, più o meno partecipato, ma più spesso incongrua accozzaglia d’incomprensibili fonemi; e c’era la confessione, c’erano gli inginocchiatoi, l’Acquasanta, le preghiere in coro, l’Offertorio e l’offerta al sagrestano.
Poi arrivò la rivoluzione giovannea. E dalla poesia dell’incomprensibile si passò alla presunta chiarezza della prosa in lingua. Il mistero della fede ne soffrì. E la gente, in chiesa, muovendo le labbra, chissà in quale sussurrata benedizione, cominciò in realtà a borbottare dentro di sé i fatti propri, i problemi della famiglia, gli affari che non andavano troppo bene, i figli che davano pensiero, e mille banalità del quotidiano, tra uno sbadato Segno della croce e una riflessione sulla verginità di Maria. Infine, dopo 45 minuti, ite, andate. Il dovere domenicale era assolto. Forse ci si sentiva meglio uscendo alla luce del sole…
Ma ora, in teatro, sono stati portati, alla luce di una nuova realtà, i segreti pensieri che uno si fa in recondita intimità dentro di sé, tra panca e inginocchiatoio, e che hanno ben poco a che vedere con la fede. Anche perché, a dire il vero, c’è sempre stata in passato una rispettosa distinzione tra riti della fede e prosaicità di più laici comportamenti. In altre parole, prima che uno in chiesa pensasse ai cavoli suoi, era osservato il comandamento popolare, “scherza con i fanti, ma lascia stare i santi”.
Non più.
E i romagnoli Roberto Scappin e Paola Vannoni, interpreti e autori su una pedana tra due sedie e due inginocchiatoi, hanno inscenato, con spregiudicata, godereccia e spassosa laicità, il pensiero di chi in chiesa ci va, ma poi, tutto sommato, ha altro a cui pensare, come la revisione dei 10 comandamenti, che, nella nuova versione, cominciano con: Primo non scocciare.
I due “fedeli” teatrali hanno una recitazione sussurrata, come si conviene in chiesa per non disturbare. Disquisiscono, in 50 minuti, il tempo d’una Messa, sull’ovvio e il mondano, su Madonne e genuflessioni, tra padri figlioli e spiriti santi, o su chi è meglio tra San Francesco e San Pietro. E, tra i ricordi di gioventù, tu eri punk o eri dark? E se devi scoprire fra 9 palline quella che pesa di più facendo solo due pesate, come fai? E tra un “Pirulìn Pirulìn piangeva” e una “Bella ciao”, con mistico fervore, vengon fuori le più imprevedibili e impensabili bestialità. E così sia, la Messa è finita.
Spettacolo blasfemo? Non diciamo fesserie. Nell’asfittico panorama d’un teatro nazionale noioso, scontato, spesso inutile, questa Biennale veneziana sta offrendo segrete e sorprendenti vitalità, come questo “Sembra, ma non soffro”, spettacolo irridente, gaudiosamente ironico, scherzoso, spudoratamente sincero. E il pubblico è felicemente partecipe. Ed anche il mio vecchio e ieratico parroco d’una volta si sarebbe divertito.

UN COMMOSSO TRIBUTO AL SACRIFICIO DI SARAYEVO

Ben altro divertimento offre “Assedio”, da “Cyrano di Bergerac, di Edmond Rostand. Si parla di quel tragico e famoso 5 aprile1992, quando a Sarayevo i cecchini cominciarono a sparare su una folla di pacifici dimostranti. Ed ebbero inizio l’assedio della città (più di 12.000 vittime, 50.000 feriti, tra crimini e atrocità) e una guerra che cambiò il volto della Bosnia Erzegovina.
In un’ora e 50, la pièce racconta la storia d’un gruppo di rifugiati, a Sarayevo, dove per sopravvivere da clandestini riscrivono il “Cyrano” di Rostand. Fuori, infuria la guerra. In casa, tra crepitii di bombe e di mitraglia, si vivono attimi di elegiaco romanticismo, tra le spacconate del nasuto moschettiere, l’amore di Rossana per il bello e disgraziato Cristiano, la famosa scena di “Cos’è un bacio, un giuramento fatto un poco più dappresso, un’apostrofe rosa messa fra le parole t’amo…”, la morte di Cristiano in guerra, la rivelazione dopo vent’anni dell’amore d’un morente Cyrano per Rossana, e il lamento di lei, “ho amato un solo uomo e l’ho perso due volte”. E Cyrano muore volando su un raggio di luna. E così muore anche Sarayevo…
“Assedio”, scritto e diretto da Pino Carbone (già conosciuto nei precedenti “Barbablù” e “Penelope e Ulisse”), è interpretato da con Anna Carla Broegg, Alfonso Postiglione (Cyrano), Francesca De Nicolais (Rossana), Renato De Simone (Cristano), Rita Russo – musiche e suoni originali eseguiti dal vivo Alessandro Innaro e Marco Messina.
Lo spettacolo nasce da un’idea un po’ tirata per i capelli. Viene parafrasato l’assedio di Arras dal “Cyrano” rapportandolo alle tragiche efferatezze dell’assedio di Sarayevo. C’è una sproporzione di termini in un’equazione che non sta in piedi, tanto più che lo sforzo drammaturgico e interpretativo risente più della tensione della guerra che non di una acquietata pace della mente. E la recitazione si fa via via nevrotica, tesa, sviando e brutalizzando così anche l’immortale testo di Rostand in un’ambientazione da prove al tavolino.
Eppure, alcuni momenti, come la parentesi rock, sul finale, ha dato momenti d’intensa e sincera commozione. Già è salvifico questo. Bene dunque. Applausi entusiastici alla fine per tutti.