(di Andrea Bisicchia) – La frammentazione è ormai diventata una categoria che coinvolge non soltanto la vita sociale e politica, ma anche la vita artistica e, in particolare, quella del teatro che negli ultimi decenni ha scelto forme rappresentative alquanto diverse.
La frammentazione ha prodotto la scomparsa dell’intellettuale politico, sostituito da una figura spuria, presente nei talk show, con le sue rabbie e con quel tanto di spettacolare che lo rendono gradito o sgradito al pubblico dei telespettatori.
L’assenza di un sistema di idee ha creato però una forma di discredito nei suoi confronti, perché, proprio da tale assenza, è scaturita la frammentazione del dialogo e dell’esercizio critico. Lo stesso è accaduto nel mondo del teatro, sempre più in cerca di testi frammentati, tanto che, per esempio, molti personaggi del mito, come Antigone, Medea, Cassandra, Ulisse, vengono utilizzati per costruire dei canovacci con frammenti di opere di autori diversi che hanno scelto lo stesso argomento e che successivamente cercano di cucire sul palcoscenico a volte con risultati molto deludenti. C’è da dire che la frammentazione può avere delle folgorazioni o nascere da forti intuizioni. Accade però che, in assenza di un esercizio critico, la messinscena frammentata finisce per inseguire la spettacolarizzazione e, pertanto, l’illustrazione.
Così, se la politica ha deciso di fare a meno degli intellettuali che credono nell’esercizio critico, il teatro ha deciso di fare a meno dei registi che pensano, lasciandosi attrarre da quelli che illustrano.
In simili casi il pensiero conta ben poco, essendo più importante la forza dell’immagine che ha il potere di illustrare il vuoto dell’immaginazione, rendendo la fantasia elemento indispensabile per l’attività creativa, ancella di un immaginario scadente, al quale si cerca di dare il valore di una rappresentazione.
Anche per quanto riguarda gli illustratori, bisogna distinguere tra quelli geniali, come Bob Wilson o Romeo Castellucci che, a modo loro, ci offrono un teatro “illustrato” con capacità fantastiche elevate, senza mai cadere nella bolgia degli illustratori che si accontentano di ricorrere ad espedienti tecnologici per dare un senso a quel che senso non ha.
Mi viene in mente un saggio che Pirandello scrisse nel 1908, quando non era ancora un drammaturgo benché avesse scritto delle commedie, in particolare una per la Duse, che lei non lesse neanche e che lo deluse a tal punto da strappare i fogli di quei tentativi giovanili dei quali non ci è rimasto nulla. Si tratta di “Illustratori, attori, traduttori”, dove Pirandello sottolinea il rapporto tra “concezione” ed “esecuzione”, ovvero, tra momento creativo e momento realizzativo. Egli era convinto, come lo siamo noi, che l’opera d’arte, non fosse soltanto frutto di una percezione, perché questa la si può decomporre in un sistema di sensazioni, ma che fosse il prodotto di una “concezione”, ovvero di quella creatività che appartiene all’artista e che chiunque volesse trasferirla in un’altra disciplina, come la messinscena, finirebbe per “illustrarla”.
C’è da dire che il contesto storico in cui operava Pirandello era ben diverso dal nostro, essendo l’attore il punto di riferimento come esecutore di un testo teatrale e non certo il regista, la cui figura allora era sconosciuta in Italia, pertanto la colpa di “illustrare” un testo veniva addebitata proprio all’attore, soprattutto nel momento in cui non era capace di percepirne la profondità.
A suo avviso, l’illustrazione non avrebbe mai potuto accedere a quanto di più profondo esista in un’opera d’arte teatrale. Ne era così convinto che facendo riferimento alle figure tragiche, create da Shakespeare, diceva che, se non ci fossero stati dei grandi attori ad interpretarle, si sarebbero immediatamente notate “le loro piccolezze e le ridicole meschinità”.
Dicevamo che il nostro contesto è diverso e che le responsabilità di uno spettacolo sono da addebitare al regista che però se non è capace di scrutare un testo, nella sua profondità, finirà per “illustrarlo”, tanto che la sua immaginazione visiva lo porta a “vedere” e non a “pensare” la traduzione scenica. Inoltre, siamo ben consapevoli che i linguaggi visivi sono in continua trasformazione, grazie all’evolversi della tecnologia, e che sono portati a enfatizzare lo sguardo, piuttosto che la mente.
Far teatro oggi: imbastire tanti pezzetti di opere diverse in collages che enfatizzano la vista. Ma trascurano l’anima
24 Aprile 2023 by