Fascista? Macché. Solo scomodo, Rosso di San Secondo, il terzo grande autore del 900 dopo Eduardo e Pirandello

(di Andrea Bisicchia) La vita artistica di un narratore vive nelle pagine dei suoi esegeti, quella di un drammaturgo nelle “pagine” del palcoscenico. Quando vengono a mancare l’una e l’altra, occorre cercarne il motivo.
L’occasione mi è data dalla recente pubblicazione di un volume di Calogero Rotondo: “Rosso di San Secondo, narratore e drammaturgo (1887-1956)”, edito da Terre Sommerse che, per la completezza della ricerca, per la scoperta di alcuni inediti, per la molteplicità degli apparati, offre la possibilità di ritornare a parlare di un autore scomodo, irruente, passionale, deciso a rinnovare la scena del primo Novecento, con una corposa produzione teatrale, che si protrasse fino al 1953, ovvero fino alla composizione di “Il ratto di Proserpina”, andata in scena, durante le Orestiade di Gibellina (1986), con la regia di Guido De Monticelli, che riportò all’attenzione della numerosissima critica la figura artistica di Rosso, di cui, due anni dopo, la Compagnia Tieri – Lojodice, con la regia di Giancarlo Sepe, ripropose, con teatri sempre esauriti, “Marionette, che passione”.
Questo successo avvalora la mia tesi, secondo la quale, uno sperimentatore come Rosso, avesse bisogno di Compagnie primarie, di Teatri Stabili, di Festival internazionali, per essere rappresentato, ma soprattutto di quella continuità necessaria per essere conosciuto da un folto pubblico. Dei suoi compagni di strada: Chiarelli, Antonelli, Cavacchioli, Bontempelli, solo Pirandello fu l’autore che riscosse successi a livello internazionale, mentre Rosso dovette accontentarsi di quelli europei, benché verso gli anni Trenta avesse subìto un periodo di silenzio, interrotto da Luigi Squarzina che mise in scena, al Festival internazionale di Venezia, “La scala” (1955), con Gianni Santuccio e Lilla Brignone.
Calogero Rotondo, ha raccolto, nel suo libro, tutto quanto era possibile trovare negli archivi, nelle biblioteche, negli Istituti di cultura, ha scandagliato recensioni, ha dato ordine ai saggi critici pubblicati e persino ai Convegni, alle Lezioni magistrali, offrendo, ai nuovi ricercatori, la possibilità di frequentare e interpretare l’Opera di Rosso.
Per chi, come me, ha scritto tantissimo su Rosso, cercando persino di analizzarne la storia delle messinscene, grazie all’interesse dell’Editore Sciascia, accostarmi al lavoro di Calogero Rotondo è stato molto utile, perché, grazie ad alcune lettere inedite inviate alla poetessa Orazia Prini, ho potuto capire meglio l’ostracismo nei confronti dell’autore nisseno, accusato di essere fascista, come, del resto, lo fu Pirandello, benché nelle loro opere non vi fosse nulla dell’ideologia fascista, essendo interessati a sondare la crisi dell’individuo, nel momento in cui cercava di liberarsi dai lacci della società borghese, nei confronti della quale, la loro rivolta fu di tipo identitario, oltre che esistenziale, avendola accusata di aver preferito il teatro commerciale, ritenuto “purulento e confettato”. Come ebbe a scrivere Adriano Tilgher già nel 1919 “il vero superatore del teatro borghese è, a tutt’oggi, in Italia, Rosso di San Secondo”.
Allora, perché nel dopoguerra, fu snobbato? Forse perché pesava l’accusa di fascismo? Dalle lettere citate, si evince che Rosso di San Secondo odiava autori come Forzano e Cantini, si scagliava contro la “cricca D’Amico”, quella di impostazione cattolica che arrivava fino al giudizio negativo espresso da Diego Fabbri , non risparmiava il regime, accusandolo di “immondizia governativa”. Fu anche un oppositore di Max Reinhardt, il cui teatro di regia era, a suo avviso, troppo tecnologico e troppo meccanico. Poi c’erano altri motivi meno convincenti, per esempio quello di Giorgio Strehler, il quale diceva di voler mettere in scena Rosso, ma non lo faceva per non essere ossessionato dalla moglie. Lo stesso Luigi Squarzina scelse “La scala” perché prodotta dal Festival di Venezia e non dallo Stabile che dirigeva. Non rimanevano che gli Stabili siciliani. Già nel 1960 Turi Ferro e Ida Carrara, con la regia di De Martino, avevano messo in scena “La bella addormentata”, solo che bisognerà attendere il decennio 1980-1990 per assistere a una serie di messinscene degne di nota, come una versione sperimentale della “Bella”, con la regia di Giancarlo Sbragia, protagonista Raffaella Azim (1980), un “Delirio dell’oste Bassà” con Vittorio Franceschi a Ginevra (1983) che fece scrivere a Bonino, sulla Stampa, “Rosso è il terzo grande drammaturgo del Novecento dopo Pirandello e Eduardo”.
Sono ancora degni di nota “L’ospite desiderato”, con la regia “ pinteriana” di Piero Maccarinelli (1990) e il trittico voluto da Pietro Carriglio per il teatro Biondo di Palermo, con una sua regia di “Una cosa di carne”, “Il delirio dell’oste Bassà”, regia Roberto Guicciardini, “ Lo spirito della morte”, regia Giuseppe Dipasquale.
Poi ancora il silenzio.
Il libro di Calogero Rotondo, che ha avuto un appassionato committente in Paolo Mandalà, è l’occasione per riscoprire il genio di Rosso.

Calogero Rotondo, “Piermaria Rosso di San Secondo. Narratore e drammaturgo 1887-1956″ (Vita, opere, memorie, testimonianze, critica, profilo e inediti) – Ed. Terre Sommerse 2017, pp 580, € 28