Fischiati alla Scala “I Vespri siciliani”. Come rovinare un’opera, forse non brutta. Basta ascoltarla a occhi chiusi

MILANO, giovedì 2 gennaio ► (di Carla Maria Casanova)I Vespri siciliani alla Scala. Fischiati. Doverosamente. In 70 anni, la Scala li ha messi in cartellone 3 volte. Forse questa grande oculatezza un motivo l’avrà. Però quella prima volta, nel 1951, diretti da de Sabata, furono un avvenimento. Dettaglio: lanciarono Maria Callas, al suo debutto scaligero (non contando le sparute repliche di Aida dell’aprile 1950). Callas che, della grande aria Mercè dilette amiche, fece un evento epocale. Poi nel 1970, I Vespri furono diretti da Gavazzeni, con un cast stellare: Piero Cappuccilli, Gianni Raimondi, Ruggero Raimondi, Renata Scotto/Leyla Gencer. Infine nel 1989, direttore Riccardo Muti, regia scene e costumi Pier Luigi Pizzi, cast: Giorgio Zancanaro, Ferruccio Furlanetto, Chris Merrit, Cheryl Studer.
Ci sembrarono tutti begli spettacoli e I Vespri persino una bella opera. Mah.
Intendiamoci, di questi Vespri in scena adesso alla Scala non è da dire: sono una schifezza, non andateci. Andateci pure, ma a un patto, se volete assicurarvi un minimo di godimento. A patto cioè, 1) di indossare una mascherina (non quelle prescritte dalle sanzioni Covid. Una bella mascherina sugli occhi, come si mettono in aereo per non essere disturbati dalla luce, e, patto 2) – di non ascoltare assolutamente quello che cantano né cercare di capire cosa succede, qual è la storia ecc. Mettersi cioè lì e ascoltare la musica. A parte il primo atto noiosetto, si può godere.
Gli atti sono 5, qui divisi in tre parti: primo e secondo, terzo e quarto, quinto. Con due intervalli. La ripartizione è squilibrata in quanto l’ultimo atto è brevissimo, né se ne capisce l’utilità, dato che tutto finisce con il quarto: e vissero felici e contenti. Se non fosse per quel colpo di scena finale che azzera tutto, per concludere nella solita tragedia. E poi c’è il “Mercè dilette amiche” culmine dell’intera partitura, ed anche un duetto tenore-baritono, davvero non male. Insomma, l’ultimo atto ci deve stare.
La storia ha connotazioni storiche precise già espresse dal titolo: si tratta di moti scoppiati in Sicilia nel XIII secolo contro gli usurpatori Angioni. Eugene Scribe e Charles Duveyrier ne scrissero il libretto rifacendosi a quello mai andato in porto de Le Duc d’Albe.
Per Verdi I Vespri erano il suo ventesimo titolo, preceduto di poco dalla celebre triade Rigoletto, Trovatore e Traviata che lo aveva reso famoso. Allargare la fama al pubblico francese era suo grande desiderio e l’occasione di una commissione per Parigi fu accolta con entusiasmo. Per uniformarsi al vigente stile francese, occorreva un grand’opera. Verdi seguì meticolosamente la stesura del libretto, portando numerose modifiche. L’opera, Les Vêpres siciliennes, data in francese, ottenne grande successo (1855). Poi ci furono problemi politici quando Les Vêpres vennero portati in Italia, tradotti in italiano, perché varie alleanze erano cambiate. Anzi, si dovette aspettare l’Unità d’Italia del 1861.
Per quanto riguarda la storia, sappiamo che il melodramma non è il luogo da cui aspettarsi un minimo di sensatezza, ma qui si rasenta l’intollerabile. La forza del destino, in confronto, è una fiaba per bambini. Da dove l’urgenza di non voler assolutamente entrare in merito a niente di quanto succede in palcoscenico, quando ci si pone all’ascolto dei Vespri.
Risalendo al patto n 1) – cioè al consigliato uso della mascherina – lo spettacolo scenico è da dimenticare. L’amico Hugo de Ana, di fama internazionale, ha prodotto messe-in-scena insigni. Basterebbe quella Turandot allo Sferisterio di Macerata (anni ’80)) per fare di lui un grande. Ma qui qualcosa gli ha dato alla testa. Tramutare la Sicilia del XIII secolo in una situazione bellica dell’attuale conflitto in Ucraina è già una trovata piuttosto banale, ma più grave ne è la realizzazione: una carrellata di immagini monocolori (cioè grigio-nere) che si dipana sul supporto di tralicci, passerelle e quinte nere. Soldati con elmetto e fucili sempre spianati e il coro dei siculi anche loro tutti in grigio-nero.  Fanno da sfondo, ma taluni vengono in primo piano, dei massicci carri armati. Mai visto a teatro nulla di più deprimente. Per non parlare di quel gruppo scultoreo che appare durante il duetto tra padre e figlio e che rappresenta un dolente Ecco Homo e poi un Cristo risorto. Infine, quando interviene il balletto (in origine si faceva una bella pausa al 3 atto e si ballavano Les saisons per tirar su il fiato) si assiste a una coreografia insulsa ed esagitata con uomini e donne saltellanti che mimano i gesti degli antichi egizi. Sì, nell’ultimo atto c’è un grande albero argenteo, ma chi se ne importa, oramai il male è fatto. Insomma, per voler sentire almeno la musica, che offre momenti piacevoli, si impone l’eliminazione del deterrente visivo. Che poi, siamo sinceri, nemmeno l’esecuzione è ottimale. L’orchestra sembra svogliata (nel primo atto certamente). Fabio Luisi sul podio non pare particolarmente attratto dalla partitura. I personaggi principali sono quattro: Giovanni da Procida, basso; Guido di Monforte, baritono; Arrigo, tenore; la duchessa Elena, soprano. Il sanguinario Procida è il coreano Simon Lim, piuttosto scialbo. Ha buttato via la sua aria “O tu Palermo”, usualmente degna di qualche emozione. Il cattivo Guido di Monforte, che poi è un sentimentalone pronto a cedere onore e potere per sentirsi chiamare papà, è Luca Micheletti che di suo fa anche il regista iniziando a collaborare con Ronconi, è un artista interessante con voce sicura e ottima formazione anche scenica. Arrigo, l’infelice eroe dilaniato tra il decidersi se salvare la Patria, convolare con l’amatissima Elena o denunciarsi figlio del “nemico” Monforte e quindi perdere Paese, amata e onore, questo povero Arrigo eroe mancato, perde naturalmente tutto, stritolato dalle incresciose situazioni. Lo interpreta Piero Pretti, di carriera oramai internazionale. Ha uno squillo limpido e preciso e si regge su una dizione accurata. Nel cast dei Vespri, è il migliore. E c’è Elena, interpretata dalla bella e nota artista lettone Marina Rebeka, già conosciuta alla Scala. Ma nei Vespri non so, la voce è parsa spesso metallica, priva di spessore. Il Mercè dilette amiche privato delle vorticose agilità che avevano reso sublime la Callas.
E allora facciamola finita con questi Vespri.
Dopo la prossima, ennesima Bohème (dove la Rebeka, nei panni di Mimi, dovrebbe essere a suo perfetto agio) aspettiamo con ansia Les Contes d’Hoffman, in marzo. Sempre sperando che David Livermore non si lasci andare anche a lui a qualche invereconda stravaganza.

Repliche dei “Vespri”: 8, 11, 14, 17, 21. L’opera, data nella versione italiana, inizia alle 19 e termina alle 22,40.