(di Andrea Bisicchia) Il teatro è fragile, come sono fragili coloro che lo hanno scelto per professione, sempre attenti alle parole degli altri e a confutarle nel caso fossero contrarie dalle loro. La fragilità è tipica dell’essenza stessa del teatro, poiché il farlo coincide con l’esserne parte, interamente. Il regista, l’attore portano sul palcoscenico non solo una propria interpretazione del testo, ma anche una loro realizzazione, perché, nel testo scelto, si sono riconosciuti, o, meglio, hanno riconosciuto la loro fragilità nell’interpretarlo, nell’avergli dato una seconda vita, magari mettendo in crisi la propria, come avviene, in modo particolare, durante le prove, quando la fragilità si fa sentire maggiormente, perché conseguenza di incertezze, di paure di sbagliare per non essere andati fino in fondo, di rabbia, di speranze, sentimenti contrastanti che coinvolgono il fattore umano, con tutte le crisi che ne conseguono.
Il rischio. Mettere in scena un testo comporta un rischio, forse per la contraddittorietà delle idee che sta a base di ogni interpretazione. Il rischio vale, sia per la messinscena di un classico, che di un autore contemporaneo, specie se si tratti di una novità assoluta. Il concetto di rischio comporta nuovi sviluppi, dal punto di vista intellettuale, se si sbaglia, le reazioni possono essere di tipo diverso, come lo sono, in fondo, le giustificazioni, quelle che i teatranti sono bravissimi nel trovare. Se esistono dei rischi di sbagliare, esistono anche delle colpe che, spesso, si addebitano ad altri. C’è chi se la prende con qualche attore che si ritiene inadeguato, c’è chi se la prende con i pochi mezzi economici che ha a disposizione, coinvolgendo il potere di turno. Solo che la vera creativià è proprio l’opposto del potere, essendo la sua vera funzione quella di criticarlo.
La creatività, però, vince sempre e ha poco a che fare con le cause del declino che possono essere di tipo materiale o spirituale, nel primo caso si ha a che fare con la realtà economica degli allestimenti che ha poco a che fare con la spiritualità, nel secondo caso la ricerca è rivolta verso la dimensione del fantastico, di cui il vero teatro ha bisogno.
La fantasia fa rima con poesia, proprio quella che è venuta a mancare negli ultimi decenni, caratterizzati da un continuo ricorso ai fatti di cronaca che contengono un alto livello drammatico, ma che nei testi che ad essi si ispirano, si trovano dei racconti che ripetono, senza alcuna sublimazione, ciò che la cronaca ha raccontato molto meglio.
Ecco il motivo per cui tutto ciò che accade sul palcoscenico ha bisogno di una continua verifica che appartiene soltanto alla creatività e alla fantasia. Ed è, a questo punto, che si avverte un senso di colpa, che si combatte contro un vulnus che rende fragile qualsiasi operazione, a meno che fare cronaca col teatro non sia considerata una colpa. La comunità teatrale è certamente un microcosmo rispetto alla comunità sociale, benché abbia una sua storia millenaria, una sua appartenenza, un suo linguaggio, ma non la rendono unitaria, essendo formata da una molteplicità di artisti che, a loro volta, producono forme estetiche diverse, in alcuni casi, anche rischiose, che mettono in concorrenza istituzioni diverse, le cui colpe sono quelle di non vedere quanto accade sotto i loro occhi.
La fragilità è qualche volta compensata dal successo di uno spettacolo, si tratta di una fragilità che è anche produttrice di forme artistiche che appartengono non solo alle capacità dei registi o degli attori, ma anche al loro talento, senza il quale, non ci sarà grande arte.
I lettori dello Spettacoliere sono, in gran parte, professionisti del teatro che partecipano volentieri a quanto scriviamo, sono consapevoli che continuare a discutere, come scrive Umberto Ceriani, “fa parte del copione, perché se si mettesse una parola definitiva e inappellabile sui motivi della crisi del teatro, significherebbe una sola cosa, la fine dello spettacolo” e che, come osserva Rino Bizzarro “Bisognerebbe trovare un autentico scatto di orgoglio che porti il teatro al vero auspicabile cambiamento”. C’è chi, come Angelo Colosimo, parlando degli spettacoli che invadono anche i piccoli borghi, osserva che “Il Teatro, ogni estate, produce la Sagra della Retorica”, c’è chi, come Maria Procino, fa parlare Eduardo: “Ritengo che chi fa teatro debba battersi per liberarsi dalle catene e pastoie burocratiche che gli impediscono di fare senza star troppo a pensare se il teatro muore o no, giacché, in effetti, esso non morrà finché ci sarà chi lo ama abbastanza da farlo”. C’è chi, come Daniele Timpano, dice di non essere mai contento, anche questa è una forma di fragilità.