MILANO, mercoledì 9 gennaio ► (di Paolo A. Paganini) Già il 4 sembra che sia un numero che porta scalogna; se poi ci son due 4 di fila, la iella è certa. Se poi si aggiunge un 8, ch’è il doppio di 4, rassegniamoci al disastro. E la giovanissima scrittrice inglese Sarah Kane, a soli 28 anni (che è 4 x 7), dopo cinque libri e dopo l’ultimo, “4:48 psychosis”, ha messo fine a una tragica esistenza di farmaci e depressioni, impiccandosi con i lacci delle scarpe.
Questo ultimo testo, dal titolo misterioso ma non troppo, diventa così una specie di rivelazione psicoanalitica, con un sottotitolo che potrebbe essere “Patologia d’un suicidio”.
Qui, l’anima di Sarah Kane si è messa impietosamente a nudo, cosciente e allucinata nello stesso tempo, con i grumi irrisolvibili di una disperata psicosi, alterata e incontrollabile, nata da una congenita nevrosi, o angoscia, o disperazione, connaturata come disturbo del pensiero, fino al delirio, alle fobie, alle allucinazioni. E il citato “4:48” diventa l’ora di una condanna, l’ora del sacrificio finale, l’ora fatale – così sembra – dei sucidi del mattino, quando il sole si leva su un’alba di morte.
“Dopo le 4:48 non dovrei più parlare. Ho raggiunto la fine della desolata e ripugnante favola di un giudizio internato in una carcassa aliena…”, scrive la Kane. E subito dopo dà una prima spiegazione di un tormento d’amore, che non le dà pace, fantasma tra tante altre lugubri apparizioni: “A volte mi rigiro e sento il tuo odore e non posso muovermi, non posso cazzo andare avanti senza esprime questa terribile fottuta schifosa brama che provo per te. E non posso credere di sentire questo per te e che tu non provi niente…” e ancora, nella sua tragica incapacità di vivere, pur amando la vita, ma non corrisposta: “Sono stanca di vivere e la mia mente vuole morire…” e poi: “Sono diventata così depressa per il fatto di essere mortale che ho deciso di suicidarmi...”
E così è andata.
Tutto questo, e altro ancora, cioè autolesionismo, ferirsi su cocci di vetro, disprezzo di sé, e del proprio corpo nudo, né trovando pace o sollievo, non più, dall’amore ormai diventato rabbia. Stravolta da un elenco asettico di medicinali. “Per favore, non tagliatemi tutta per scoprire come sono morta. Ve lo dico io come sono morta: cento di Lofepramina, quarantacinque di Zoplicone, venticinque di Temazepam e venti di Mellerin…”.
Amore, desiderio d’amore, volontà d’amore, attesa d’amore, delusione d’amore, inutilità dell’amore: in questa disperata e totalizzante catena di sentimenti si brucia la vita di Sarah Kane.
Tutto questo, dicevamo, è ora in scena all’Out Off, nell’interpretazione inquietante, allucinata, disperata e folle di Elena Arvigo, con l’intensa regia di Valentina Calvani, in un disordinato antro scenico di luci e ombre, simbolo dell’anima straziata di Sarah Kane, già qui apparsa fugacemente cinque anni fa. Ma l’Arvigo, più o meno continuativamente, è una decina d’anni che la vive in scena, partecipata, sofferta e cucita addosso come carne della sua carne. Un applauso alla sua generosa fatica attoriale. Specie sul versante più specificamente espressivo, dove padroneggia una voce malata, alterata, che passa da stupori infantili a più profonde e spiazzanti tonalità squarciate dalla tragedia interiore del personaggio.
Il dramma si conclude in un’ora senza intervallo. Pur nella sua brevità, scava nell’anima dello spettatore con una pena a momenti insopportabile. Tanto o poco, diventa la radiografia della “fatica di vivere”, della “tragedia del vivere umano”, due titoli emblematici e formativi di antiche letture, che ciascuno si porta dentro, e che magari, semplicemente e filosoficamente, ciascuno ha già risolto, come diceva Gaber in uno spettacolo del ’73 : “Far finta di essere sani”.
Ma nel ’73 Sarah Kane aveva solo due anni. Crescendo capì, come tanti di noi, che c’era poco da far finta.
“4:48 Psychosis”, di Sarah Kane, traduzione di Barbara Nativi, regia di Valentina Calvani. Con Elena Arvigo. Repliche fino a domenica 27 gennaio. Al Teatro Out Off, via Mac Mahon 16, Milano.