Gigantismo, celebrazione del rito mondano. E la funzione del teatro come “servizio pubblico” andò a farsi benedire

(di Andrea Bisicchia) In attesa delle novità di Settembre, propongo, in seconda lettura, un volume pubblicato dal Mulino dal titolo: “Società e Teatri Stabili”, che raccoglie gli Atti del Convegno internazionale dei teatri stabili, tenuto a Firenze nell’ottobre del 1965, utile per una riflessione sulla situazione teatrale di oggi.
Erano passati circa vent’anni dalla fondazione del Piccolo Teatro della città di Milano e altrettanti dal Convegno su “La nascita del teatro contemporaneo in Italia”, tenuto alla Casa della Cultura, organizzato da Paolo Grassi, durante il quale si discusse del teatro come servizio pubblico.
Il nuovo convegno si sofferma proprio sul concetto di “servizio pubblico” e sulla crisi degli Stabili, accusati di aver tradito questa vocazione e di essersi messi a servizio di operazioni artistiche con fini consumistici. A che cosa addebitare l’esaurirsi della carica rivoluzionaria del 1947? Perché, dopo aver contestato il teatro borghese del primo cinquantennio del Novecento, gli Stabili erano ritornarti a una consacrazione del proprio operato artistico e organizzativo e non  erano stati capaci di guardare il proprio passato con occhi critici?
Le accuse che venivano loro rivolte erano quelle di “gigantismo”, di essere ritornati a celebrare un rito mondano, di soffocare il servizio pubblico a vantaggio di un teatro impresariale, tanto da essere considerati, da qualcuno, organismi aziendali di tipo industriale. I riferimenti riguardavano i grandi spettacoli di Strehler, di Squarzina, di Missiroli che, pur di straordinaria fattura artistica, andavano incontro a una contestazione riguardante la cristallizzazione delle forme e la consacrazione di una estetica che favorivano la fine di una storia.
A una tipologia di teatro che era nata in un particolare momento drammatico, con una nazione da rifare e con un pubblico considerato il più analfabetizzato d’Europa, una tipologia dal forte spirito contestativo, veniva a sostituirsi un’altra idea di contestazione proveniente dal basso, dalle Cooperative e da artisti che credevano più a un teatro di immagine che di parola. Stava per nascere una nuova società, quella degli universitari figli di operai, degli attori-operatori, degli intellettuali di opposizione che richiedevano un teatro provocatorio, di agitazione, se non un teatro politico.
Non era più sufficiente educare lo spettatore, bisognava farlo partecipare e riflettere. I nomi dei congressisti appartengono, ormai, alla Storia del teatro, si va da Bernard Dort che si intrattenne sul pubblico dei teatri sovvenzionati in Francia, a Gianmaria Guglielmino, che fece un storia dei teatri stabili in Italia partendo dalla Compagnia Reale Sarda nata ne 1832, conclusasi amaramente nel 1854, quando lo Stato Sabaudo decise di togliere i finanziamenti, a Bruno Schacherl, che faceva notare come il consolidarsi di una situazione esistente non facesse altro che generare una crisi crescente e che il tradimento di una linea culturale fosse chiaro a tutti. A dire il vero, i numeri, in fondo, davano ragione agli Stabili che potevano vantare un forte  aumento degli abbonamenti e, con essi, delle produzioni. Si faceva già allora molto teatro, tanto da pensare alla creazione di nuovi e più efficaci quadri lavorativi. Solo che il pericolo della crescita stava dietro l’angolo, non bastava consolidare il pubblico, era necessario formarlo in continuazione.
Si finì per parlare di “panteatrismo” e, forse, proprio per questo, si capì quanto fosse necessario il rinnovamento che doveva essere anche ti tipo linguistico, tanto che se ne discuterà in un successivo convegno, i cui atti furono pubblicati sempre dal Mulino col titolo “Teatro del nostro tempo”, a cui partecipò, tra altri, Martin Esslin, la cui relazione ebbe come argomento le origini e i motivi delle correnti teatrali contemporanee.
A dire il vero, a una società che stava preparando i moti sessantotteschi e i processi di liberazione attraverso i figli dei fiori, occorreva dare un nuovo teatro. A Milano ci pensarono Dario Fo e Franca Rame con l’invenzione della Comune, Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah con la creazione del Pier Lombardo, Gabriele Salvatores ed Elio De Capitani con la fondazione dell’Elfo. Ebbe, così, inizio un’altra storia.

“Società e Teatri Stabili”, Atti del Convegno di Firenze del 1965, Il Mulino 1967, pp 250.