MILANO, mercoledì 6 aprile ► (di Paolo A. Paganini)
“Quando alla fine l’uomo capisce; quando si squarciano le spesse coltri delle illusioni, e la Verità appare in tutta la sua crudezza, è sempre troppo tardi. Non c’è più tempo, per riparare le falle della vita. La Verità, in fondo, è l’ultima inutile crudeltà, l’ultima beffa. È la pena che l’uomo paga alla colpa di vivere, credendosi nel giusto, quando invece scopre d’aver sbagliato tutto…” (P.A.P., Corriere del Ticino, 4 giugno 1985)
MI piace ricordare l’attacco di quel mio lontano pezzo, in occasione del “Re Lear”, visto allora al Teatro Lirico di Milano, nell’allestimento critico – e rivoluzionario, da un punto di vista della scenotecnica – di Ingmar Bergman, con il quale analizzava il senso del vuoto, l’orrore del nulla, il sesso, l’avidità, il sentimento dell’inutilità. E mettendo soprattutto in evidenza, che nulla è più angosciante d’un vecchio abbandonato e che scopre di aver sbagliato tutto.
Il 1985 è stato anche l’anno del “Re Lear”, con Glauco Mauri (anche regia), con, tra gli altri, Vittorio Franceschi, Massimo De Rossi, Roberto Sturno (compreso un pupazzo ventriloquo). Allora, il Matto (Sturno) rappresentava uno dei poli concettuali del dramma shakespeariano. “Con lucidità spietata e dolente egli prevede tutto quanto accadrà, e la sua follia è una forma superiore di sapienza… Shakespeare sa che la pazzia è un dono divino, che consente di spingere lo sguardo oltre la facciata della realtà…” (dall’introduzione di Dario del Corno, che fu riduttore e adattatore di Re Lear, insieme con Glauco Mauri.
Sul concetto della follia e della triste vecchiaia, che almeno possiede infine la “sapienza” della verità, tanti hanno dato la loro interpretazione. (Memento per gli appassionati, alcuni allestimenti ormai storici: 1972 Strehler; 1985 Glauco Mauri; 1994 Franco Branciaroli, regia Sepe; 1997 Piero Mazzarella, regia Shammah; 2003 Serena Sinigaglia; 2005 Roberto Herlitzka, regia Antonio Calenda; 2006 Dodin; 2015 Michele Placido; 2016 Mariano Rigillo…)
Il male, piaga purulenta dell’anima umana, e la pazzia, divina strada di conoscenza e di redenzione, sono ora recuperati, dopo 37 anni da quel lontano 1985, nel nuovo allestimento di “Re Lear”, con Glauco Mauri e Roberto Sturno (che non fa più il Matto, ma l’acciecato Gloucester). Regia Andrea Baracco. Al Piccolo Teatro Strehler (due tempi, uno di un’ora e dieci; e l’altro di un’ora e venti).
Glauco Mauri ora ha 91 anni. Non finge di essere vecchio. Lo è veramente. Ma che meraviglia sentirlo, ora, su quell’immenso palcoscenico, dove, senza microfonino (come tutta la magnifica compagnia di dodici attori), fa ugualmente e chiaramente sentire la propria voce.
Glauco è qui un’emozione continua, attraverso la ricchezza di tante gamme espressive: un Lear dissennato, fanciullesco nei capricci senili, nel diseredare l’unica figlia che l’ama veramente, e privilegia le altre due, che sono invece capolavori di ipocrisia e di crudeltà.
Il bastone ormai sorregge Glauco. Cammina con difficoltà. Ma è sempre Glauco, con un’anima ancora che ha stupori e soprassalti, egoismi e tenerezze, un attore che sembra rinnovare i fasti di Memo Benassi o di Ruggero Ruggeri. Tutti gli appassionati di teatro dovrebbero correre a vederlo al Piccolo, dove si fermerà soltanto fino a giovedì 14 aprile.
Lo spettacolo, pur arrivando con un buon rodaggio, ha tuttavia incredibili dispersioni nella tenuta registica e in una scenografia brechtiana che non aiuta la concentrazione (un fondale tipo facciata di palazzo, tutto trasparenze di cristalli, con un ascensore che va e viene, con porte sul piano che si aprono continuamente come in un vaudeville di Labiche, ma qui non c’è proprio niente da ridere. Re Lear è sommamente tragico, triste, crudele, malinconico, fino alle morti violente finali. Ma, volendo, si può leggerlo come una metafora dei nostri tempi sciagurati, fatti di mali, di guerre, di violenze, e comunque vissuti con tutte le storditezze dei vecchi, che ormai vedono sfiorire gli ultimi sogni, le vane speranze, gli impossibili amori, le illusioni, e rimangono solo le incomprensioni padri e figli, i tradimenti, le perfidie delle anime perse. E i drammi della solitudine.
Qui, la regia fa centro, rispetta tutti i veleni, le violenze, le torture nel fisico e nelle anime dei personaggi shakespeariani.
Rimangono, come accennato, alcune innegabili storture. Alle quali si aggiunge la scelta dei costumi moderni, che non giovano al fascino malefico e luciferino della tragedia antiqua. La quale ha sempre e comunque il sopravvento. Su qualsiasi mugugno critico.
Grandi applausi finali, per tutti. Ma, giustamente, soprattutto per Glauco Mauri.
“Re Lear” di William Shakespeare, traduzione di Letizia Russo, riduzione e adattamento di Andrea Baracco e Glauco Mauri, scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, musiche Giacomo Vezzani, Vanja Sturno, luci di Umile Vainieri, regia Andrea Baracco. Con Glauco Mauri, Roberto Sturno, e con Marco Blanchi, Eva Cambiale, Dario Cantarelli, Melania Genna, Francesco Martucci, Laurence Mazzoni, Woody Neri, Giulio Petushi, Emilia Scarpati Fanetti, Francesco Sferrazza Papa. Al Piccolo Teatro Strehler (largo Greppi, Milano). Informazioni e prenotazioni 02.21126116.