VENEZIA, lunedì 3 agosto ♦
(di Paolo A. Paganini) L’insicurezza, l’indecisione, il dubbio sono eterni, in ogni paese, in ogni tempo. Per questo si può parlare di Amleto come nostro contemporaneo. Non scade mai. È patrimonio dell’umanità. Della insicurezza dell’umanità. Le negative declinazioni dell’anima di Amleto diventano oggi, in un mondo di perenni incertezze (ahimè, “del doman non v’è certezza”, disse il buon Lorenzo mediceo, con un proclama di verità ovvio ma di successo, pronto ad ogni uso e circostanza, come ogni proverbio che si rispetti), diventano, dicevamo, ancor più pressanti, angoscianti, portatrici d’un nero fardello d’incognite. Altro che Amleto nostro contemporaneo. Amleto oggi diventa l’emblema delle paure universali d’un vasto repertorio di incognite. C’è da inquietarsi. O da arrabbiarsi. Amleto, che non sa decidersi ad ammazzare il re fratricida ed usurpatore (anche perché la tragedia shakespeariana sarebbe bell’e finita) si arrabbia e, in attesa di darsi da fare con funeste vendette, si lascia andare a incontrollabili raptus. Spacca tutto, così si sfoga un po’, anche se non riesce a controllare la sua mente alterata, prendendosela con la buona Ofelia, portandola prima alla follia (lei sì, matta per davvero, non Amleto), e spingendola poi, praticamente, al suicidio, dopo averle ammazzato anche il padre.
Beh, la storia di Amleto la conoscono tutti. Basta.
Ma l’Amleto secondo il lituano Oskaras Korsunovas ha ora qualche aspetto di novità.
A parte le intemperanze di cui sopra (ma il lituano ne sa qualcosa, dopo il cinquantennale pugno di ferro sovietico), il regista s’è studiato di modificarne struttura e forma, come per adattarlo a metafora del malessere nazionale. Già l’avvio dell’operazione ne fissa le regole. Rivoluzionarie.
L’azione scenica si apre sui camerini, dove i dieci attori, davanti ai lori specchi, si stanno truccando. E, come talvolta avviene, lo specchio diventa strumento di autoanalisi. Il “Chi sei?”, che di lì a poco sarà rivolto al terroristico fantasma del re assassinato, viene ora insistentemente rivolto a se stessi. Un’antica domanda che, anche noi adolescenti, rivolgevamo davanti allo specchio, appena, al ginnasio, venivamo indottrinati dal socratico “Conosci te stesso”. Qui si scatena la prima amletica ossessione. I camerini diventano Elsinore. E tutto, di lì in avanti, diventerà un gioco di specchi e di rimandi, in un’esplosione di suoni e deflagrazioni su una scena dove prevale il nero, tra un baluginare di luci al neon sopra i mobili-specchio, oggetti-separé di multifunzionali utilizzi scenici e di vari ambienti della reggia danese.
Questo come accenno alla forma.
Per la sostanza il regista è intervenuto sul piano logico/temporale, con spostamenti, dilatazioni, iterazioni di scene, sempre di specchio in specchio. Prendiamo Ofelia, vittima innocente dell’intemperante Amleto, che non sa decidersi su un cavolo di niente. Dopo la sua dolce follia, la successiva scena della morte di Ofelia è pietosamente sempre rimandata od elusa, come nascosta, con una tenerezza e un pudore che ci sono molto piaciuti. Altra metafora di tante vittime politiche?
Infine, saltando di palo in frasca, lo stereotipato finale shakespeariano, che ci è sempre rimasto un po’ sullo stomaco, è stato risolto da Korsunovas, che probabilmente ha le nostre identiche idiosincrasie, in un immaginifico rituale di morte.
In una specie di “bevi Rosmunda” (leggasi regina Gertrude), dove al cranio del padre subentra ora il teschio del buffone Yorick, la stordita regina, bevendo il vino avvelenato, è la prima a rimetterci le penne. Intanto Amleto, nella ricorrente nevrosi del suo “essere o non essere”, trova finalmente risposta ai suoi dubbi in un contagio di morte, dove all’essere subentra il definitivo non essere. Muore Amleto, muore Laerte, il fratello di Ofelia, muore il malvagio re fratricida e usurpatore. Se c’era del marcio in Danimarca, pulizia è fatta. La vendetta in quattro e quattr’otto s’è risolta senza tante storie in un collettivo bagno di sangue. La defunta ombra del re potrà dirsi soddisfatta e finalmente riposare in pace.
Dopo tre ore di spettacolo, arrivato alla Biennale dopo congruo rodaggio (che ha toccato, anni scorsi, anche l’Italia), Korsunovas, più degli amletici dubbi, ha descritto, come ormai s’è capito, le ansiose nevrosi del pallido prence. Ma il risultato diventa eccessivo, talvolta dispersivo, tra suoni spesso sussultuosamente esagerati. E, tuttavia, questo “Hamlet” di Korsunovas possiede una vigorosa forza strutturale e una intrinseca coerenza che lo rendono di degna e meritata considerazione. Anche e soprattutto per la generosa dedizione di tutti gli interpreti, encomiabili anche per finissime capacità attoriali. Ci piace ricordare Rasa Samuolyté nel ruolo di Ofelia, e il di lei padre Polonio, interpretato da Vaidotas Martinaitis, di sottile umorismo in finissime doti quasi variettistiche. E poi Dainius Gavenonis, nel doppio ruolo del re morto e del re usurpatore; Nelé Savicenko, scriteriata regina Gertrude; e Julius Zalakevicius (Orazio). E, come accennato, bene tutti gli altri.
Gli amletici dubbi diventano, per i lituani, irresistibili nevrosi (ma forse c’è di mezzo qualche brutto ricordo politico)
3 Agosto 2015 by