(di Paolo Calcagno) C’è un’Italia che conosciamo soltanto attraverso le cronache nere di giornali e tv che ci raccontano di faide spietate con i fratelli che si ammazzano l’un l’altro, di sequestri di persona (bambini compresi), di riti barbarici, di pastori a mano armata, di contiguità diffusa con la ‘ndragheta, di donne piegate dal dolore e, comunque, devote ai maschi di famiglia, di sterminati e selvaggi paesaggi, di sentimenti aspri, di rancori insanabili (anche e, soprattutto, verso lo stato “colonizzatore”). È un’Italia, quella dell’Aspromonte calabrese, che conosciamo solamente da lontano, per sentito dire, e che facciamo fatica a riconoscere come terra nostra, casa nostra, cultura nostra. Con le immagini cupe e potenti di “Anime Nere”, Francesco Munzi ci porta in quelle terre sfortunate, povere, abbandonate, senza regole, se non quelle ancestrali dei legami familiari e della violenza, dove in buona sostanza regna sovrano il flusso del sangue, quello impazzito dei vivi e quello in grumi dei morti ammazzati.
Liberamente tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino editore), “Anime Nere” racconta la storia di tre fratelli, figli di un pastore dell’Aspromonte (ucciso in un episodio malavitoso finito tragicamente), che cercano la loro emancipazione, sociale e, nel caso di Luciano, anche etica. Tutto si muove intorno al crimine: Luigi, il più giovane, è di casa ad Amsterdam dove sbriga i suoi affari di trafficante internazionale di droga; Rocco, dai modi e dai lussi borghesi, copre con la sua attività di imprenditore milanese il flusso di soldi “sporchi” di Luigi; Luciano, il più anziano, è sepolto nel suo ideale di una Calabria preindustriale, dove è rimasto a vivere, insegue la purezza continuando l’antico mestiere di famiglia e allevando capre, esorcizza l’impulso della vendetta in un rapporto malinconico e solitario con il passato e l’assassinio del padre. La scelta di vita di Luciano è apertamente disprezzata da Leo, suo figlio ventenne, che in “Anime Nere” rappresenta la generazione perduta, senza identità. Il ragazzo, invece, ha una sorta di venerazione per lo zio Luigi e sogna sia di bagnare nel sangue la vendetta sospesa di famiglia, sia di fuggire da Africo (roccaforte fatiscente dell’Aspromonte dove il film è stato ambientato e girato con la convincente partecipazione di gente del luogo) per unirsi all’emancipazione moderna dell’esistenza dello zio. Ma una lite banale spinge Leo a un gesto violento contro un bar protetto dal clan rivale. Il ragazzo, di notte, spara contro le vetrate del locale: in qualsiasi altro posto quel gesto sarebbe stato archiviato come una bravata adolescenziale, ma in Aspromonte, ad Africo, riaccende il focolaio dell’antico odio e riattiva impulsi e tensioni, mai completamente superati, dell’antica faida. Male e bene, amore e odio si mescolano indistinguibilmente nel dipinto straordinario e realistico di un archetipo tragico e antico che dilaga e travolge tutto e tutti, come il ripetersi del destino maledetto, insanguinato, senza grazia e senza perdono, degli antichi Atridi, per raccontare il quale non basterebbe il canto dolente di Omero, ma occorrerebbero i versi bui e disperati di Euripide.
Munzi che, pur senza ottenere premi importanti, è stato accolto con gratificanti manifestazioni di consenso da pubblico e critica, sia a Venezia, sia a Toronto, per meglio rappresentare sullo schermo l’archetipo dilaniante e distruttivo del suo film, ha efficacemente conservato nei dialoghi il dialetto nativo dei personaggi e ha affidato questi ultimi alle interpretazioni di attori dotati di facce e temperamento “giusti” più che di nomi di richiamo.
“Anime Nere”, regia di Francesco Munzi, con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane. Italia, 2014.